Il reverendo Tyler, vedovo da un anno, ce la sta mettendo tutta per rimettere insieme i pezzetti di una famiglia smembrata: la figlia maggiore, Katherine, ha smesso di parlare e ha comportamenti violenti in classe; la piccola Jeannie vive con la nonna. A complicare la situazione, la sua crescente sfiducia nei valori cristiani e la disaffezione della sua stessa comunità.
Resta con me è un romanzo sulla forza di vivere e sulla capacità di affrontare le difficoltà che si presentano attraverso la convivialità e l’amore verso gli altri. Sii premuroso. Pensa sempre prima al prossimo.
Elizabeth Strout descrive la vita di una cittadina del Maine alla fine degli anni ’50, una cittadina dove il perbenismo, i pregiudizi, le malelingue rischiano di mandare in frantumi la vita dei suoi stessi abitanti. Dove un banale pettegolezzo può minare la credibilità di un reverendo che pure ha fatto tanto per loro, li ha avvicinati alla religione e li ha confortati nei momenti di bisogno.
Il passato dei personaggi – non solo quello della famiglia Cassey ma anche dei personaggi minori – viene fuori a poco a poco ed è solo verso la fine che si può avere un quadro d’insieme su ciò che li ha cambiati e li ha fatti essere quello che sono diventati. Ed è proprio la costruzione delle singole psicologie che rende accattivante e magnetico questo romanzo (anche se avrei dato maggior spazio all’analisi della piccola Katherine, un personaggio che spezza il cuore per la sua fragilità).
La Strout si dimostra molto attenta nello scavare a fondo nell’animo umano fino ad arrivare alla profondità più vera, quella celata dietro ad una corazza di facciata: il dolore, la solitudine, la perdita della propria identità, i dubbi sulla fede.
No, Tyler non stava perdendo la fede: era la fede che sembrava averlo perduto.
Numerose (e a mio giudizio, non sempre indispensabili) sono le citazioni di versetti tratti dalla Bibbia, che contribuiscono a rendere ancor più stridente il contrasto tra la profonda devozione che aveva caratterizzato il novello reverendo di West Arinett e la sua attuale crescente sfiducia in quegli stessi valori.
Il percorso di crescita che deve affrontare Tyler per riprende in mano la sua vita e ritrovare la Sensazione (ossia la vicinanza con Dio e la gioia di essere ancora utile ai suoi fedeli) dovrà passare per una dolorosa accettazione degli sbagli commessi.
Ma il reverendo non è l’unico che dovrà fare i conti con il passato. Anche sua figlia Katherine, la domestica Connie, il diacono Charlie e (se pur in maniera meno evidente) gli altri abitanti della cittadina dovranno attraversare un momento di profonda crisi per prendere atto dei propri errori e ripristinare gli equilibri.
A mio avviso, il senso profondo del romanzo (se non la parte più emozionante) sta nella conversazione finale tra Tyler e il suo professore e mentore, George Atwood, e nella definizione che quest’ultimo dà del rapporto che intercorre tra i membri della comunità e il loro reverendo.
A me sembra che la tua congregazione ti abbia dato amore. E il tuo compito è quello di riceverlo. Forse prima d’ora quello che provavano era un amore infantile, fatto di ammirazione, ma quello che ti è successo quella domenica, e la loro reazione… questo è un amore maturo e compassionevole.