Meursault è un uomo apatico che non ha slanci affettivi neanche di fronte alla bara di sua madre né è in grado di ricambiare pienamente l’amore di Maria. Per puro caso si trova coinvolto in una lite e, senza un reale motivo, uccide un arabo. Ne segue il processo e l’inevitabile condanna.
Lo straniero di Albert Camus è un grande libro, un capolavoro unico nel suo genere che non può che far riflettere sul senso delle proprie azioni e sull’atteggiamento nei confronti della vita. Di personaggi abulici, senza grandi entusiasmi e poco avvezzi ai sentimentalismi se ne incontrano a volontà in letteratura – basti pensare a molti dei personaggi di Márai o al più recente William Stoner di John Williams – ma con Meursault si tocca l’apice del nichilismo. Anche se non può che inorridire per la sua poca attitudine alla vita e per essere distaccato e indifferente a tutto in modo quasi arrogante, questo personaggio lascia un segno indelebile.
Il romanzo è strutturalmente diviso in due parti: nella prima si svolgono i fatti; nella seconda gli avvenimenti già trattati vengono riproposti in tribunale e sfruttati per gettare fango su Meursault. Di fatto, perciò, in questa fase il lettore non scopre nulla di nuovo ma osserva inerte – e un po’ indignato – come, anche in quest’occasione, il protagonista non si scomponga più di tanto, ma viva con distacco le accuse che gli vengono mosse e con altrettanto distacco il verdetto dei giurati. Solo sul finale si avverte un accenno di compartecipazione del protagonista e di preoccupazione per quello che lo aspetta, salvo poi liquidare tutta la faccenda con un’alzata di spalle – come se facesse tutto parte di un meccanismo doveroso a cui è inutile opporre resistenza.
Ma tutti sanno che la vita non val la pena di essere vissuta, e in fondo non ignoravo che importa poco morire a trent’anni oppure a settanta quando si sa bene che in tutt’e due i casi altri uomini e altre donne vivranno e questo per migliaia d’anni. Tutto era molto chiaro, insomma: ero sempre io a morire, sia che morissi subito, sia che morissi fra vent’anni. […] Dal momento che si muore, come e quando non importa, è evidente.
Il valore aggiunto di questo romanzo sta nella scrittura, che inizialmente nella sua semplicità e immediatezza cala un macigno sul lettore facendogli assaporare la noia di un’esistenza senza brio, senza entusiasmi, perfino senza emozioni, ma che poi si fa più concitata rendendo palpabile la tensione del momento processuale. Alla fine è l’angoscia quella che attanaglia alla gola di noi spettatori, che soffriamo di questa immobilità e di questa attesa mentre il protagonista si crogiola nella sua visione nichilista della vita. Perché in fondo non c’è idea cui non si finisce per fare l’abitudine.
Lascio ad altri più letterati di me il compito di indagare a fondo il senso dello stile di Camus, il suo esistenzialismo e le ragioni che lo hanno portato su questa strada. Dal canto mio, mi riservo il dovere di avvicinare altri lettori a questo memorabile e indiscusso capolavoro.