Simone, rimasta vedova e con due figli da tirare su, Irene e Dorian, si trasferisce in Normandia per prendere servizio presso un gentile e rispettabile signore, Lazarus Jann, un rinomato costruttore di giocattoli. Eppure in quella casa succedono strani eventi e spetterà a Irene, con l’aiuto del giovane Ismael, scoprire i misteri che si nascondono in quella dimora e portare in salvo la sua famiglia.
La mia personale esperienza con Carlos Ruiz Zafón è iniziata con il mirabile L’ombra del vento ed è continuata con romanzi di tutt’altra levatura (Il gioco dell’angelo, Marina, Il principe della nebbia) che mi hanno portato ad un calo d’interesse e a una progressiva disaffezione verso questo autore. Dopo diversi anni però, eccomi di nuovo intrappolata nella sua rete, avida di avventure che si districano tra reale e soprannaturale.
L’impressione che mi sono fatta nel tempo, e che trova conferma dopo la lettura de Le luci di settembre, è che Zafón sa far salire alle stelle una tensione carica di inquietudine – di quelle incontrollate e insensate che anche da adulto ti fanno provare un certo disagio a stare al buio. Forse il suo merito più grande sta proprio qui: nel farti credere ai fantasmi e ai mostri che si nascondono sotto il letto aspettando il momento giusto per saltare fuori e spaventarti a morte. Un merito, a mio parere, non da poco.
La costruzione della storia e la descrizione dettagliata di scenari da brivido fanno sì che la suspense e un irragionevole timore crescano via via.
L’interminabile nottata gli aveva permesso di capire fino a che punto i suoi nervi fossero tesi come le corde di un pianoforte. Ogni riflesso, ogni scricchiolio, ogni ombra minacciavano di lanciare il suo cuore al galoppo.
Il romanzo non è un capolavoro, questo è certo, e se la memoria non mi tradisce non regge il confronto con quel perfetto thriller che è L’ombra del vento. Ma fa il suo. Ti incastra in una rete ipnotica di presenze spettrali e avvenimenti macabri e non ti lascia prendere fiato fino all’ultima pagina.