Una giovane donna va in anni recenti alla ricerca del misterioso passato dei reclusi di un enorme lager in un’isola greca dove il regime dei colonnelli confinò folli, poeti e oppositori. E sprofonda, seguendo archivi polverosi e segni magici, in una catena imprevista di orrori e segreti dove la pazzia sempre più si mostra come eterno segno della ribellione e il passato rivive in storie miracolose. Nella seconda parte del romanzo la detection su follia, normalità e violenza della donna si allarga al mondo contemporaneo e finisce col diventare inevitabile, sconvolgente autobiografia dell’autrice, dove il nodo del rapporto con la madre e la scoperta del fantasma della propria follia (e di quella materna) si aprono in immagini di rara forza. Unica salvezza è la parola poetica, la passione di dire e raccontare che unisce i mondi nel gesto individuale di chi ha il coraggio di cercare ancora “la prima verità”.
Terribile e bellissimo è il commento che esce a caldo, subito dopo aver letto le prime pagine de La prima verità, vincitore del Premio Campiello 2016. Otto anni ci sono voluti a Simona Vinci per dare alla luce questa “creatura”: crudele, spietata, agghiacciante, scioccante. Vera.
Sì, è un romanzo, ma questa volta non si può dire che i personaggi e i fatti riportati siano puro frutto di fantasia; la Vinci si è liberamente ispirata a reali accadimenti e persone.
La storia è ambientata sull’isola di Leros, nel Mar Egeo, dove Angela, una giovane ricercatrice italiana, approda insieme ad altri come lei per prendersi cura di coloro che sono i reclusi, i dimenticati, i relitti umani che un tempo avevano una storia e ora invece sono come i fantasmi: chi ci crede sa che esistono ma nessuno ha voglia di vederli veramente. Sono i malati di mente, quelli che fanno paura ai “normali”, quelli che portano il marchio del diavolo e sono un peso per le famiglie che li devono accudire.
Leros era un’isola lager dove, dopo la metà degli anni cinquanta, venivano deportati gli oppositori politici e i “matti”, costretti a convivere separati solamente da una rete metallica.
Nell’isola c’era una base militare e un ospedale psichiatrico contenente migliaia di psicopatici più o meno gravi abbandonati a sé stessi. Sì, un contenitore! Perché prima della legge Basaglia, che diede la possibilità a queste persone di essere assistite presso famiglie, gli ospedali psichiatrici erano esattamente dei luoghi dell’orrore dove il rapporto tra infermiere e paziente era 1 a 50, se tutto andava bene. Nell’isola di Leros gli psichiatri erano 2 per migliaia di malati che venivano confinati lì, per non importa quale patologia mentale.
Lo staff infermieristico era formato da gente comune, fortunata ad essere assunta perché riusciva così a mantenere la propria famiglia e ad assicurarsi la pagnotta. Zero personale qualificato, zero terapie per i pazienti, zero cartelle cliniche.
La Vinci, grazie al romanzo, ci fornisce un quadro di inquietante disperazione; ce lo racconta attraverso la storia di Basil il Monaco, Stefanos il poeta dissidente (personaggio ispirato alla figura del poeta greco Ghiannis Ritsos), attraverso le torture a cui erano sottoposti gli oppositori del regime, attraverso la storia di Teresa, violentata dal fratello maggiore e uscita di senno e con la storia di Nikolaos, detto Temistocles, il bambino con il sasso in bocca: si arriva nell’isola e si perde tutto, dai vestiti agli effetti personali, fino alla perdita dell’identità.
E a tutt’oggi, è ancora impossibile accedere all’interno dell’ospedale, scoprire la verità sugli orrori che sono stati ripetutamente perpetrati al suo interno, nonostante l’edificio abbia cominciato il proprio smantellamento alla fine degli anni ’80.
Alla fine il libro diventa quasi autobiografico, la voce narrante passa in prima persona. Sono brandelli di vita di gente che è passata in un modo o nell’altro nella vita dell’autrice.
Tutti stiamo in bilico su un abisso, cerchiamo di salvare noi stessi e magari qualcuno che amiamo, siamo vivi nel rischio, nell’adrenalina, nella speranza e nell’incertezza. Poi può succedere che la nostra vita decida di sedersi e di rimanere ad aspettarci lì, più o meno nel posto che pensavamo di aver lasciato per sempre.
Il titolo La prima verità si riferisce ad una verità di valore assoluto; la Vinci dà voce ai depressi, agli schizofrenici, agli ansiosi, agli anoressici, ai bulimici, ai paranoici, ai violenti.
Ognuno racconta i suoi bisogni, e i sogni, gli incubi, i desideri, la sua versione dei fatti e hanno tutti ragione perché una prima verità non esiste da nessuna parte. È tutto vero anche quando non lo è.
Uno splendido libro, un’avvincente testimonianza.