Addie e Louise sono due vedovi settantenni che decidono di dormire insieme per tenersi compagnia. Col tempo la loro relazione si fa più affiatata, merito anche del piccolo Jamie, il nipotino di Addie, in visita per il periodo estivo. Ma la comunità intorno a loro e soprattutto i familiari non vedono di buon occhio questo loro rapporto…
Mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me.
Cosa? In che senso?
Nel senso che siamo tutti e due soli. Ce ne stiamo per conto nostro da troppo tempo. Da anni. Io mi sento sola. Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me, la notte. E parlare.
Lui la fissò, rimase a osservarla incuriosito, cauto.
Non dici nulla. Ti ho lasciato senza parole? Chiese lei.
Penso proprio di sì.
Non parlo di sesso.
Me lo stavo chiedendo.
No, non intendo questo. Credo di aver perso qualsiasi impulso sessuale un sacco di tempo fa. Sto parlando di attraversare la notte insieme. E di starsene al caldo nel letto, come buoni amici. Starsene a letto insieme, e tu ti fermi a dormire. Le notti sono la cosa peggiore, non trovi?
Ecco il preambolo de Le nostre anime di notte è un romanzo breve ma denso di significati.
Che la solitudine in età avanzata sia una difficile bestia da domare è un fatto noto, e che un’amicizia, un affetto, se non anche un amore tengano lontano la tristezza lo è altrettanto. Eppure vedere questi due vecchietti prendersi cura l’una dell’altro nelle lunghe notti insonni (neanche troppo insonni da quando l’altra metà del letto è scaldata da un corpo caldo) è di una tenerezza disarmante. Contro tutti – parenti, amici, compaesani che vedono questo rapporto come qualcosa di inappropriato per due vedovi attempati – Louis e Addie si fanno compagnia tenendosi la mano sotto le lenzuola.
La vecchiaia fa paura: rimanere soli quando il coniuge non c’è più e i figli hanno preso la loro strada rende difficile anche solo riempire le giornate. Kent Haruf tratta un tema non facile e lo fa raccontando un affetto nato per il bisogno di trovare qualcuno con cui vincere la solitudine. Un rapporto progettato a tavolino ma ben presto sostenuto da sentimenti autentici.
Per oltre metà del libro non accade niente di clamoroso, niente di imprevedibile. È solo la vita normale di due vedovi che si raccontano gli errori commessi, i dolori, le gioie e le soddisfazioni di un’intera esistenza e che si reinventano nonni di un bambino in crisi.
È nelle ultime pagine, invece, che è racchiuso il senso vero del romanzo: la necessità di sceglie tra la cosa giusta da fare per il bene comune o lasciarsi andare al proprio desiderio.
Sullo sfondo ma coprotagonista della storia, una cittadina da sogno, Holt, ma abitata da una popolazione chiusa, bigotta, provinciale, che non accetta questa relazione, la vede come un insulto, un’onta, un’imperdonabile mancanza di rispetto verso i rispettivi coniugi deceduti.
Ed è così che i pettegolezzi e le malelingue rischiano di minare la rispettabilità di due perfetti concittadini – tematica questa che mi ha riportato alla mente la stessa atmosfera puritana tratteggiata da Elizabeth Strout in Resta con me.
Kent Haruf è uno di quegli scrittori divenuto famoso post mortem: se in vita non ha fatto grande clamore, da quando è scomparso è salito alla ribalta come uno delle figure più rappresentative degli ultimi anni.
La sua è una scrittura estremamente semplice (devo dire un po’ troppo semplice per i miei gusti) dove anche la punteggiatura è finalizzata all’immediatezza (basti pensare ai discorsi diretti che non sono contrassegnati da nessun segno grafico). Ma a quanto pare è proprio questa la sua forza: arrivare al nocciolo della questione senza tante sbavature!
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