Jeff Lochart arriva a Convergence, un centro altamente tecnologico, dove il padre Ross sta aspettando la morte della sua seconda moglie Artis. È qui che scopre che suo padre ha intenzione di seguirla a breve, fiducioso che le future tecnologie possano riportarli insieme.
Zero K, il mio primo incontro con Don DeLillo, è stato un’autentica delusione. Ero così entusiasta di conoscere questo autore che, pur non essendo un romanzo molto nelle mie corde, ho messo da parte i pregiudizi e mi sono abbandonata letteralmente alla paradossalità del tema.
Non è da molto che ho letto Non lasciarmi del Premio Nobel Kazuo Ishiguro ed è stato inevitabile per me fare un confronto tra i due romanzi. Anche se in modo diverso, entrambi i libri cercano una soluzione alla malattia e alla degenerazione del corpo. Questo a dimostrazione di quanto sia difficile per l’essere umano accettare la natura effimera della vita e quanto affascini la prospettiva di trovarne un antidoto.
In questo romanzo si parla di criogenetica, un procedimento di conservazione del corpo in attesa che la scienza sia in grado di invertire il decorso in modo da risalire alle cause e curare le malattie degenerative. In parole povere, superare i limiti che la natura impone all’uomo, sostituirsi a Dio regolando la linea evolutiva a proprio piacimento, fintanto che la morte sarà debellata e l’eccessiva popolazione mondiale porterà al desiderio della morte stessa, per ripristinare gli equilibri.
– Cosa troveremo qui? Una promessa che gode di maggiori garanzie rispetto a tutti gli ineffabili aldilà delle religioni organizzate di questo mondo.
– Ci serve davvero una promessa? Perché non morire e basta? Perché siamo uomini e abbiamo bisogno di aggrapparci a qualcosa. In questo caso non alla tradizione religiosa, ma alla scienza del presente e del futuro.
In sintesi, anche a rischio del panorama apocalittico che ne potrebbe derivare, gli scienziati continuano i loro studi all’avanguardia in questo centro in mezzo al deserto. Convergence è un non-luogo dove tutto sembra finto (il giardino all’inglese, le porte senza maniglie), dove i pannelli nei corridoi mandano in onda calamità naturali e disastri ambientali causati dall’uomo, guerre senza fine, monaci che si danno fuoco per protesta.
Ma a parte il tema indubbiamente curioso, è nello sviluppo della storia che mi sono trovata persa. Il libro è diviso in tre parti: la prima si svolge in questo centro futuristico ed è sempre lì che la storia si conclude (anche se in realtà la sensazione è che non si concluda affatto). Nella parte centrale invece è raccontato il ritorno alla normalità di Jeff, fatto di (noiosi) episodi slegati. Insomma, la mia impressione è che questo intermezzo rompa il filo della continuità narrativa per poi riprende senza un vero sprint finale. Manca una conclusione, manca il messaggio. Incompleto!