Tre storie che prendono il via da avvenimenti insoliti e puramente casuali (una telefonata, una proposta di lavoro, una lettera improvvisa) e che avranno conseguenze inaspettate.
Trilogia di New York è una raccolta di tre racconti a tratti surreali e paradossali (per non dire umoristicamente pirandelliani) che racchiudono il senso imprevedibile dell’esistenza.
Quello che si evince complessivamente da questa raccolta è la presenza pregnante del caso che determina e guida il corso degli eventi.
In Città di vetro è il caso che fa arrivare la telefonata a Daniel ed è sempre il caso che lo porterà ad aggirarsi per la città di New York con l’intento di sventare un omicidio, ed infine è sempre al caso che va imputata la conclusione della sua affannosa ricerca. Il protagonista è uno e triplice: è Daniel Quinn, tutti lo conoscono come William Wilson, ma acconsente ad essere anche Paul Auster, l’investigatore privato ingaggiato dai coniugi Stillman.
Il secondo racconto Fantasmi, può sembrare un po’ troppo succinto e non brillantissimo, ma ho trovato una trama a effetto perfettamente in linea con la brevità con cui è stato concepito. Qui l’inquietudine dei personaggi (tutti connotati da nomi di colori) è tutta racchiusa in appena cinquanta pagine, ma si sente eccome, è tangibile. Vuoi perché dopo il primo racconto si è entrati nella meccanica della scrittura di Auster, vuoi perché non si perde in dettagli e digressioni come nel racconto precedente: sta di fatto che si legge tutto d’un fiato.
Ma arriviamo al terzo racconto. La stanza chiusa. Dei tre è quello che mi ha catturato maggiormente. Come già in Città di vetro, è di scena una caccia all’uomo che finisce per diventare un’ossessione con evidenti esiti devastanti sulla vita e sull’equilibrio mentale del protagonista. Ritmo serrato, caratterizzazione dei personaggi: tutto è impeccabile!
Dunque era fato. Comunque ne pensasse, per quanto desiderasse una cosa diversa, non ci poteva fare nulla. Aveva detto sì a una proposta, e adesso era impossibilitato a cancellare quel sì. Questo significava una cosa sola: doveva andare fino in fondo.
Nel complesso la lettura di questo libro non è poi così immediata e scorrevole: ci vuole un po’ ad entrare nel vivo e a seguire la logica (peraltro illogica) degli avvenimenti. Al lettore non resta che lasciarsi trasportare mettendo da parte tutte le nozioni che hanno guidato finora le sue scelte letterarie: anche rispetto a Follie di Brooklyn bisogna accantonare l’idea di una narrazione realistica e lineare a favore di una che stravolge ogni regola del realismo.
Quello che inoltre si può constatare nel primo racconto è la meta-letteratura intrinseca: il falso Paul Auster si trova faccia a faccia con l’omonimo Paul Auster che ancora una volta non è il narratore della storia ma un intermediario informato sui fatti. Una trovata originale questa dell’autore: un pochino autoreferenziale, ma geniale!
Infine non si può non lodare la grande conoscenza letteraria dell’autore: i riferimenti alla Torre di Babele, al Vecchio Testamento, al don Chisciotte, a Walt Whitman inseriti nelle tre storie denotano un genio davvero impareggiabile.
Chi mi segue saprà che non sono un’amante dei racconti, ma qui ci troviamo di fronte a tre romanzi brevi che, per la loro complessità e completezza, non fanno rimpiangere la forma narrativa più nobile.
Paul Auster
Trilogia di New York
Einaudi, 1998
pp. 314