Everyman è un uomo qualunque che ha vissuto la sua vita seguendo i propri impulsi, senza preoccuparsi troppo delle conseguenze. Solo troppo tardi si renderà conto che il prezzo da pagare per le sue scelte egoistiche sarà di trascorrere una vecchiaia in completa solitudine.
Ciò che aveva imparato era niente in confronto a quell’assalto furibondo e inevitabile che è la fine della vita […] La vecchiaia non è una battaglia: la vecchiaia è un massacro.
Inizia dalla fine questo romanzo breve, dal funerale del protagonista. Così tutte le carte sono sul tavolo e non resta che svelare i retroscena della vita di questo personaggio.
Dopo Pastorale americana e Lamento di Portnoy, riscopro un Philip Roth che scocca un’altra freccia dal suo arco variegato. Everyman non è un libro sopra le righe come gli altri che ho letto. Anzi, è esattamente il contrario: una storia di ordinaria normalità, ma non per questo meno tragica nel descrivere la vita (se vogliamo perfino banale) di una persona come tante. Un uomo con i suoi difetti e le sue mancanze verso le tre ex mogli e i figli, specialmente i due più grandi. L’Everyman di Roth è un uomo con i suoi impulsi sessuali, croce e delizia della sua esistenza: lo portano a toccare il cielo con un dito e un attimo dopo lo fanno sprofondare nel baratro più cupo.
Ma il tema centrale attorno a cui ruota questa storia è il senso di ineluttabilità della vecchiaia che avanza, della degradazione del corpo nel lento avvicinarsi della morte. I continui ricoveri ospedalieri lo indeboliscono fisicamente ma soprattutto psicologicamente, portandolo ad uno stato di fatalismo e di rassegnazione.
Ora invece pareva che, come tutte le persone anziane, anche lui si trovasse nella fase in cui si diventa sempre meno, e che avrebbe dovuto arrivare alla fine dei suoi giorni vuoti così com’era: i giorni vuoti e le notti incerte e l’impotente rassegnazione al deterioramento fisico e alla tristezza finale e a quell’attesa che è l’attesa del nulla.
Negli ultimi anni della sua vita il protagonista avrà modo di riflettere sugli sbagli commessi nei confronti dei suoi cari: le donne che ha deluso, i figli che lo detestano, il fratello maggiore con cui ha un legame forte ma verso cui inizia a provare un sentimento di invidia per la vita perfetta che è riuscito a costruire (al contrario di lui che ha sprecato la sua occasione di avere una famiglia unita e felice).
L’unica a preoccuparsi per lui e ad essere presente anche nella lontananza è la figlia Nancy ed è proprio con lei che immagina di trascorre ciò che resta dei suoi ultimi giorni.
In questo resoconto, non manca neanche l’analisi del rapporto con i genitori, in special modo con il padre, che lo ha sempre considerato il figlio prediletto e lo ha voluto al suo fianco come aiutante instancabile. Ed è proprio nella ricerca di un ultimo contatto con loro – o per lo meno con ciò che ne resta: le loro ossa – che il libro tocca il massimo livello di pathos emozionale.
Ecco che, a conti fatti, in quest’uomo ormai anziano e dalla salute cagionevole si annida un senso di solitudine e di malinconia, amplificato dal vedere i suoi coetanei morire o combattere contro mali incurabili.
Un Roth meno conosciuto per un libro di un centinaio di pagine che poco assomiglia alle opere più complesse. La prosa di questo romanzo breve è più semplice e lineare, ma conserva lo stesso sguardo lucido e schietto sulla realtà. Notevole!