Esperina ha l’Alzheimer e sta progressivamente peggiorando, perdendo la lucidità della mente. A occuparsi di lei c’è sua figlia, che in questa particolare circostanza ripercorre il passato di entrambe e cerca di capire il motivo per cui il loro rapporto non è mai andato per il verso giusto.
Mia madre è un fiume è il romanzo d’esordio di una promettente Donatella Di Pietrantonio, che ha conosciuto il successo e l’approvazione di pubblico e critica dopo aver vinto il Premio Campiello 2017 con L’Arminuta.
A raccontare quest’altra storia di anaffettività materna – straziante in certi passaggi – è la figlia. È lei a prendersi cura di una madre che sta scomparendo, somministrandole le medicine agli orari prestabiliti e raccontandole la sua storia per mantenere la mente in allerta, per cercare di fermare i ricordi, per tenerla ancorata al presente. E di tanto in tanto la interroga per mettere alla prova la sua memoria e il livello di attenzione. È una lotta estenuante contro una malattia, l’Alzheimer, che non dà tregua, che si insinua lentamente e cancella tutto, il passato e il presente, e non dà speranze per il futuro.
Racconta a lei la vita, ma è a noi lettori che racconta il dramma della malattia, i momenti di assenza, l’incapacità di compiere semplici gesti quotidiani.
Ogni capitolo è un mondo a parte, un aneddoto dell’infanzia della madre o della loro vita insieme. Entriamo così in un ambiente rurale, in una grande famiglia contadina dove ci si alza con il cantare del gallo e si lavora duramente fino al tramonto, si fa il sapone in casa, ci si lava poco, si ammazza il maiale nelle ricorrenze speciali.
Quella della narratrice è una famiglia allargata dove le zie fanno un po’ da mamme anche a lei, e i nonni e i prozii sono figure centrali nella sua crescita.
Quello tra madre e figlia non è mai stato un rapporto facile: poche carezze, poche dimostrazioni d’affetto da parte di una madre indaffarata, presa dalle faccende domestiche e dall’estenuante lavoro nei campi. E la figlia, che ha sete d’affetto e non capisce tanta ritrosia, rincorre la madre, la scruta da lontano, cerca un contatto fisico e lo trova solo nel sonno.
Riprovo poche volte a memoria la voglia di stringermi al suo odore di contadina giovane e sana. Di lei è rimasta l’assenza. Avevo una madre inaccessibile, separata, non per disamore, per fretta, quest’altra forma del disamore. La inseguivo sempre, certi giorni con l’andatura dimessa del cane pulcioso che esala disperazione dal muso.
In questa lotta contro la malattia, i ruoli si invertono ed è la figlia a portare su di sé il peso delle preoccupazioni, a dover educare una madre tornata bambina, a tenerla d’occhio, a cullarla con la nenia delle favole (ma non sono favole, è il suo passato). Deve insegnarle a fare cose semplici che ha sempre saputo fare ma adesso non ricorda più, come l’uncinetto o un piatto di pasta; deve trovare un nuovo sistema per renderle facili i movimenti dentro la sua stessa casa.
Poco prima dell’alba mi ha sopraffatto l’amore per lei, ostinato e terribile, colpevole di non aver saputo trovare le vie del suo.
La prosa della Di Pietrantonio è secca, con frasi spezzate e un tono solenne che ha un che di poetico (ma che alla lunga rischia di essere puro artificio letterario).