Il clan Peruzzi, da sempre contadini impegnati sul terreno veneto, ottengono dal governo un appezzamento di terra nella pianura dell’Agro Pontino, zona ancora in via di bonifica. È da qui che dovranno ripartire, rimboccandosi le maniche ma schivando i pericoli della guerra.
Canale Mussolini è a mio avviso uno dei Premi Strega più meritati, un romanzo di una potenza impressionante, che racconta un pezzetto di storia italiana e mondiale attraverso lo sguardo (non sempre particolarmente attento) di una famiglia di contadini. Il viaggio dei migranti veneti alla volta del Lazio e il successivo insediamento nelle terre dell’Agro Pontino danno lo spunto per osservare l’ascesa al potere di Mussolini, le grandi manovre messe in campo e infine la guerra: il tutto da un punto di vista completamente diverso da quello riportato dei manuali di Storia.
Io adesso non voglio dire niente né sulla dittatura né le leggi razziali e tutto quello che hanno fatto di male al Paese, portandolo alla tragedia più totale. Però lei deve pure provare a mettersi nei panni nostri. Ognuno ga le so razon. E secondo lei chi doveva essere – per noi – il nemico: chi ci stava difendendo i nostri poderi bonificati, o chi li stava bombardando?
Quella raccontata da Antonio Pennacchi, ex operaio, nato e cresciuto a Latina, è la storia della famiglia Peruzzi, una famiglia allargata come non ce ne sono più, con tanti figli, tante nuore e una nidiata di bambini che sono un po’ di tutti: una casa affollata dove si condividono gli spazi (anche troppo ristretti per una combriccola così numerosa), ci si spartiscono i compiti e il (poco) cibo a disposizione. Una famiglia raccontata sotto tutti i punti di vista, con le difficoltà e la solidarietà che li contraddistingue.
Un romanzo-verità che ricorda in molti passaggi Furore di Steinbeck (che non a caso viene citato nel libro): l’esodo in cerca di lavoro; la famiglia numerosissima, tutta riunita sotto lo stesso tetto; la divisione dei compiti e le difficoltà economiche; la centralità della figura della nonna (in una società cosiddetta patriarcale, è lei a comandare: lei è la mente, il marito e i figli sono le braccia).
E la penna di Pennacchi scompare, non la si avverte quasi mai: si vedono i personaggi, si osserva il paesaggio prima desolante poi via via più florido ed è palpabile quella fiducia crescente al governo Mussolini, che tanto male ha fatto ma anche qualcosa di buono.
Pensato come una lunga intervista, in cui a rispondere a immaginarie domande che spezzano il monologo è il più piccolo del clan Peruzzi, è scritto in un misto di italiano e dialetto veneto, che all’inizio risulta un po’ ostico ma che diventa sempre più familiare man mano che si procede nella lettura.
Un romanzo che, se pur non si può considerare autobiografico, prende spunto dai racconti che lo stesso autore ha ricevuto come in dono dai suoi genitori, dai suoi nonni. Lui che è nato proprio in quell’Agro Pontino bonificato e risorto a nuova vita grazie alle braccia infaticabili di milioni di contadini provenienti dal Nord. Questa storia è un po’ sua, ma appartiene anche ai tanti che in quegli anni hanno avuto la possibilità di ricominciare, lontano da casa sì, ma forti dei legami familiari che si sono portati dietro.