Marcus, Hillel e Woody appartengono a due rami della stessa famiglia, i Goldman di Montclair e i Goldman di Baltimore. Nonostante la diversa estrazione sociale, sono uniti in modo fraterno, anche se qualche indicibile invidia rischia di mettere fine alla loro unione.
Rispetto a La verità sul caso Harry Quebert e La scomparsa di Stephanie Mailer, con Il libro dei Baltimore Joël Dicker cambia registro: questa volta non ci troviamo di fronte ad un romanzo tinto di giallo, ma di un racconto più intimistico, più familiare, anche se minacciato da un evento, che l’autore chiama la Tragedia, che determinerà la fine delle illusioni e l’inizio di una vita più miseramente triste per il nostro protagonista.
La narrazione avviene su tre diversi piani temporali: gli inizi dell’amicizia/fratellanza tra i tre giovani cugini; gli eventi che hanno portato alla Tragedia; e il presente, ossia quando Marcus cerca di rimettere insieme i cocci della sua esistenza raccontando la sua storia. La sua e quella dei cugini Hillel e Woody.
Più che cugini, quasi fratelli, i tre Goldman sono l’emblema della giovinezza e l’incarnazione di tutti i valori positivi della loro età: la spensieratezza e la fiducia nel futuro, ma anche la fedeltà e la solidarietà che li rende inseparabili e l’uno la spalla degli altri due. Perfino nelle questioni di cuore procedono sulla stessa linea: tutti e tre amano la stessa ragazza, Alexandra, e nonostante ciò la loro unione sembra più solida che mai.
Non mancheranno i colpi di scena e via via che si prosegue si scoprirà come non tutto ciò che appare poi alla fine si rivela esatto, e il rovesciamento dei ruoli nelle dinamiche familiari ne sono l’esempio lampante.
Unico difetto un po’ fastidioso è che tutti i personaggi sono eccessivamente stereotipati (l’avvocato di successo, lo studente geniale, la promessa del football, lo scrittore più in voga del momento, la star della musica), e forse i più “normali” sono quelli che alla fine sono i più bistrattati dal protagonista.
Lo stile di Joël Dicker in questo romanzo è talmente fluido che le quasi seicento pagine scivolano inesorabili una dietro l’altra senza appesantire minimamente la lettura (cosa che invece avevo accusato ne La scomparsa di Stephanie Mailer).
Perché scrivo? Perché i libri sono più forti della vita. Sono la più bella delle rivincite. Sono i testimoni dell’inviolabile muraglia della nostra mente, dell’inespugnabile ricchezza della nostra memoria.
Bene, Joël, allora continua a scrivere e io continuerò a leggerti.