Siamo nel Luglio 1890 e il pittore Vincent Van Gogh sta rientrando dalla solita giornata di lavoro, ma è senza i suoi attrezzi e barcolla premendosi una mano sul torace. È ferito e di lì a qualche giorno morirà. Si parla di suicidio e, d’altronde, tutte le circostanze fanno pensare a una prostrazione psicologica estrema. E se, invece, fosse stato ammazzato? Ripercorriamo allora gli eventi che hanno portato a quel momento…
Di recente pubblicazione per la casa editrice L’asino d’oro, Giallo Van Gogh di Marianne Jaeglé è a metà tra il romanzo storico e il giallo, ma con un’analisi introspettiva che lo rende estremamente intimista e profondo.
Il mistero a cui si allude nelle prime pagine è legato alla morte dell’artista: si è veramente suicidato o è stato ucciso? Questa la tesi proposta dai due storici americani Steven Naifeh e George White Smith, ed è proprio da questa loro supposizione – a dire il vero mai accreditata – che la Jaeglé prende spunto per raccontare gli ultimi due anni della vita del pittore.
Il romanzo non parla solo di Van Gogh l’artista. Sì, c’è la sua pittura, c’è la sua concezione dell’arte, il suo bisogno di dipingere di getto la vita quotidiana che gli si presenta davanti. Ma soprattutto è l’uomo Vincent a riempire queste pagine. Un uomo profondamente debole, uno strambo che parla con le sue tele, si arrabbia con se stesso, si aggira con fare cupo e inquietante. Lo chiamano “il folle”, e a ragione.
Dipingere con così tanta foga gli permette di affrontare l’angoscia, ecco tutto. […] Dipingere significa affrontare la Gorgone, ogni giorno, in una continua lotta dalla quale non è sicuro di tornare vincitore. Coprire la tela di pittura significa affermare di essere ancora in vita, in grado di lottare, dire chi è e in cosa crede. Disegnare, lasciar urlare i colori, significa far tacere questo ghigno assillante, questa accusa che sente ogni giorno da quando è nato, «sei un incapace».
A fianco a lui – si direbbe il suo esatto contrario – c’è l’amico Gauguin. L’uno è chiuso quanto l’altro è socievole e seducente; l’uno è felice di immergersi nella vita della Provenza, mentre l’altro si annoia in questa realtà provinciale e sogna i tropici. Anche nel lavoro sono agli antipodi: Van Gogh è frettoloso, scomposto, disordinato, mentre Gauguin è riflessivo e studiato; Vincent ritrae la realtà, Paul aspira a riprodurre l’Idea. La loro amicizia non sembra destinata a durare. Entrambi carichi di entusiasmo per questo connubio personale e professionale, non reggeranno alle differenze incolmabili.
L’autrice rende magistralmente questo rapporto di attaccamento di uno e repulsione dell’altro, di aspettative tradite e di reciproco malcontento – non ne esce affatto bene Gauguin, diciamolo.
E quando Paul decide di andarsene, Vincent perde il lume della ragione. Si sente tradito e, con la partenza dell’amico, vede sfumare il sogno di trasformare la Casa Gialla in un grande atelier aperto agli artisti. Si scontra con la realtà e dovrà fare i conti con la solitudine e l’insoddisfazione personale.
Un pittore non dipinge solo con i colori, ma anche con spirito di abnegazione, rinunciando a sé e con il cuore infranto.
Giallo Van Gogh è un libro che vale la pena leggere in primis perché suscita un forte desiderio di approfondire la difficile vita dell’artista, ma soprattutto perché ne dà un ritratto di uomo profondamente solo e sofferente di fronte all’indifferenza dei suoi contemporanei.