Il 15 novembre 1959 un tentativo di furto in una villetta del Kansas finì in tragedia: i quattro componenti della famiglia Clutter (padre, madre e i loro figlio, Nancy e Kenyon) furono uccisi da Perry Edward Smith e Richard Eugene Hickock.
A sangue freddo, innegabilmente considerato il capolavoro di Truman Capote, ha gettato le basi per un nuovo genere letterario: la non-fiction novel, ovvero il romanzo-verità. A conti fatti, potrebbe definirsi un articolo giornalistico di 391 pagine.
Per sei anni lo scrittore si è interessato al caso, studiando le carte, intervistando gli interessati e riuscendo a farsi aprire le porte della galera in cui erano rinchiusi i due assassini. Ne esce un’opera magistrale dove i fatti emergono a poco a poco e le personalità dei diretti interessati sono accurate e precise. In particolar modo, è Perry Smith il personaggio meglio delineato (e con cui Capote sente più affinità) e, nonostante la brutalità dell’atto compiuto, il lettore – pur non giustificandolo – un po’ lo compatisce e, scoprendo il suo travagliato passato, sarebbe umanamente portato a concedere delle attenuanti in virtù della sua “aurea di animale scacciato, di creatura ferita”.
Negli ultimi mesi tanto è stato detto e scritto sul confronto tra A sangue freddo e Compulsion di Meyer Levin. Dal canto mio, posso aggiungere che il romanzo di Capote è quanto mai oggettivo, scarno di opinioni personali e fa riferimento unicamente a quanto è stato effettivamente pronunciato dagli inquirenti, dai concittadini, dai parenti superstiti. Infatti, mentre Meyer dà voce ai suoi pensieri (seppur celandoli dietro a un “noi” che include i giornalisti ammessi a dibattere e commentare il caso), nel romanzo ispirato all’omicidio della famiglia Clutter la figura del giornalista-scrittore scompare del tutto.
Il romanzo si snoda su tre piani: il ritrovamento dei cadaveri, la ricostruzione del passato dell’uno e dell’altro imputato e l’omicidio vero e proprio. Non mancano poi le considerazioni degli amici e conoscenti della famiglia Clutter (famiglia per altro molto benvoluta dall’intera comunità) e la risonanza mediatica che il fatto ha avuto sull’opinione pubblica. Insomma, tutti ingredienti che hanno in comune i due romanzi no-fiction ma in A sangue freddo l’impianto narrativo ha un taglio più giornalistico, distaccato. Consideriamo che se Meyer aveva assistito in prima persona a tutte le fasi del processo e, per giunta, era un conoscente degli assassini, Capote ha compiuto un complesso lavoro di recupero degli atti, di analisi psicologica dei due assassini e ha parlato con gli abitanti del paesino in cui è avvenuta la tragedia.
Finora ho parlato della neutralità dello scrittore nel trattare il caso, della sua apparente imparzialità. Eppure…
Eppure è nelle ultime battute del romanzo – quando ormai le sorti dei due assassini sono segnate, il tempo è passato e la gente ha un po’ dimenticato quella brutta storia –, è proprio allora che l’autore dà libero sfogo alle considerazioni dell’ispettore incaricato, ammettendo che non ha provato quel senso di liberazione che tanto sperava di ottenere dopo l’esecuzione. Forse che Capote, attraverso il suo protagonista, abbia voluto dire la sua sull’utilità (ovverosia sull’inutilità) della pena di morte?