Manuel Vilas racconta di sé, della sua vita, dei suoi fallimenti e dell’ombra dei suoi genitori che aleggia su di lui anche ora che è rimasto orfano di loro e della sua vita di prima, la vita di figlio, la vita di marito e, seppur solo in parte, di padre.
In tutto c’è stata bellezza di Manuel Vilas è il caso editoriale dell’anno passato in Spagna e promette di fare altrettanto qui da noi. In molti lo hanno paragonato a Patria di Fernando Aramburu, ma per quanto mi riguarda il confronto non regge, essendo due libri diametricalmente opposti per contenuti e soprattutto per forma.
Questo romanzo è una sorta di mosaico di pensieri liberi, riflessioni, racconti di momenti di vita, ricordi di un passato remoto e di quello più recente. Il passato e il presente si passano il testimone ed è solo quando si arriva alla fine che si riesce a vedere il tutto ricostituito, formato nella sua interezza. Non siamo di fronte a un resoconto oggettivo, ma tutti questi flash sono filtrati dalla coscienza dell’autore per come li ha vissuti lui o come li ha ricostruiti con la mentalità dell’adulto. Un adulto che ha perso l’identità di figlio.
C’è un senso di serena malinconia, quasi rassegnazione, nelle parole di Vilas. Il distacco dai genitori, il rimpianto per come ha gestito il rapporto con loro e la consapevolezza che lo stesso distacco lo allontana dai suoi figli. C’è pudore nel dimostrare l’amore, nell’esprimerlo con un contatto fisico, ma non per questo il sentimento è meno forte, meno tangibile, meno reale.
Il passato non va mai via, può sempre ritornare. Torna, torna sempre. Contiene l’allegria, il passato. È un uragano, il passato. È tutto nella vita della gente. Il passato è anche amore. Vivere ossessionato dal passato non ti lascia godere del presente, ma godere del presente senza che il peso del passato partecipi con la sua desolazione a quel presente non è un godimento, bensì un’alienazione. Non c’è alienazione nel passato.
Che dire? Più che un romanzo nell’accezione canonica, sembra di partecipare a una seduta psicoanalitica lunga 400 pagine.
Devo ammettere che inizialmente ho pensato ad un libro cervellotico, in cui l’autore è ripiegato su se stesso, si crogiola nella sua sofferenza, nel suo essere orfano privo di una bussola (emotiva e non solo) ed ero decisa ad abbandonarlo. Poi però più andavo avanti e più trovavo rilassante quel saltare di palo in frasca, il non dovermi concentrare sulla trama e lasciarmi cullare dalla melodia di ogni frase. Ma non è un puro artificio linguistico, al contrario. Vilas ci sa fare con le parole e il suo stile ha qualcosa della rivelazione, a metà tra poesia e filosofia.
Personalmente alcuni episodi li ho interiorizzati, riconoscendo in essi alcune somiglianze con il mio vissuto e li ho amati; altri li ho trovati noiosi e li ho saltati, ma credo che passare oltre non abbia tolto nulla al quadro d’insieme.
Forse In tutto c’è stata bellezza non è un libro che può piacere a chiunque, forse non l’ho capito neanche io del tutto, ma certe riflessioni dell’autore sono riflessioni che tutti prima o poi abbiamo fatto, facciamo o faremo. Perciò chi non si lascia demoralizzare dalle 400 pagine troverà un pezzetto di sé. Lo consiglierei? Non a tutti…