Tra il 1919 e il 1924, Benito Mussolini, ex socialista e fondatore del movimento fascista, muove i primi passi verso un’ascesa politica che lo vedrà presto l’unico detentore del potere in Italia.
Con M. Il figlio del secolo Antonio Scurati ha scoperchiato il vaso di Pandora, riportando a galla gli avvenimenti che hanno contrassegnato gli anni dell’ascesa fascista. Ci sono tutti i contemporanei di Mussolini in queste pagine: tanti tra i suoi sostenitori, gli Arditi, gli amici, le amanti, la moglie, ma soprattutto gli oppositori politici e personali. Non solo, quindi, D’Annunzio, Giolitti, Nitti, Turati, Matteotti, Balbo e gli altri di cui abbiamo tutti perlomeno una lontana reminescenza scolastica, ma ci sono molti personaggi minori che, seppur non compaiono e mai compariranno su un manuale di Storia, si sono ritagliati il loro spazio in una monumentale opera che dà libera voce a tutti.
Uno sforzo analitico davvero immane, uno sforzo che si traduce in un’analisi psicologica meticolosa (vera o romanzata che sia, ad ogni modo, notevole).
Indubbiamente la ricerca delle fonti è stata minuziosa: Scurati è riuscito a scovare pagine di giornali, trafiletti di poche righe, verbali, telegrammi, lettere e diari personali e intorno a queste informazioni ha costruito un capitolo (a volte più di uno).
Ma è l’atmosfera generale evocata che merita il plauso del lettore. Scurati riesce a rendere alla perfezione il clima di speranze disattese, di frustrazioni e di malcontento dei figli della guerra che scendono in piazza per protestare sulla vittoria amputata. E ancor più marcato è il contrasto tra un’Italia in subbuglio, attanagliata dalla violenza dilagante, dai cortei che finiscono nel sangue, dalla gente che chiede a gran voce la rivoluzione, e la città di Fiume, una città in festa. Un miraggio a cui si vuole credere (per quel tanto che dura il sogno).
Ci vuole un sortilegio ipnotico che consenta di fare e disfare, di affermare un’idea e il suo opposto, di convincersi coscientemente della veridicità di qualcosa sapendone inconsciamente la falsità, soprattutto bisogna dimenticare e dimenticare di aver dimenticato. Ci vuole, insomma, un bipensiero. In questo modo si rimane sempre nell’ortodossia.
Dal quadro complessivo fatto da Scurati, emerge un Mussolini, calcolatore che tergiversa, si tiene in disparte mentre imperversa la burrasca sociale, aspetta che i tempi siano maturi e solo dopo essere certo della vittoria agisce. È abilissimo a tenere il piede in due staffe, lui. Promette da una parte e invita alla calma dall’altra. Patteggia con uno e un attimo dopo scende a compromessi con l’altro. Incita alla violenza gli squadristi e contemporaneamente si proclama l’uomo che sa tenere a bada i fascisti facinorosi. La sua politica è quella del bastone e della carota. E così facendo il consenso aumenta. Il suo genio – e di vero genio si deve parlare, a prescindere da qualsiasi ideologia politica – sta nel capire quando è il momento di agire e quando quello di aspettare, quando stringere alleanze e quando liberarsi delle zavorre che rischiano di affossarti. Il tempismo è tutto, e quest’uomo del tempismo ha fatto il suo punto di forza.
Quando i tuoi nemici si scannano a vicenda, la sola cosa da fare è aspettare. E i nemici sono tanti, perciò bisogna aspettare a lungo. Bisogna dare al ferro il tempo di corrompersi a ruggine, al metano di bruciare l’ossigeno, allo stomaco di digerire gli alimenti. Lui è diventato bravo ad aspettare: è rivoluzionario o conservatore secondo le circostanze. Lui lo sa, non si fa illusioni su questo: lui è solo un reagente. Bisogna dare alle molecole il tempo di urtarsi con violenza.
Se per la prima metà il romanzo procede con qualche difficoltà – troppi personaggi e troppi aneddoti difficilmente memorizzabili – nella seconda il ritmo si fa più incalzante, addirittura avvincente. Ecco, forse quello che mi sento di dire è che con 200 pagine in meno sarebbe stato più abbordabile e quindi più accessibile a tutti.
Quelle di Scurati non sono pagine di Storia e di certo si nota la mano di uno che di mestiere fa lo scrittore e non lo storico, dato che spesse volte si tratta di veri e propri trattati di retorica.
Mi sono chiesta: la retorica è un difetto? Sì e no. No, se fa di un qualunque testo un testo ben scritto, armonioso e più accattivante per il lettore. Sì, se si riduce a puro artificio stilistico.
Questo librone di oltre 800 pagine è un po’ l’uno e un po’ l’altro. Ci sono capitoli in cui l’enfasi del narratore rende la scena vivida, emozionante, emotivamente molto coinvolgente (anzi, di più: travolgente); altri, invece, risultano stilisticamente forzati, forse perché l’episodio in sé non richiede un simile pathos. Insomma, troppa pomposità alla fine stanca.
Eppure, nonostante lo abbia trovato fastidioso in certi passaggi tanto quanto geniale in altri, nonostante l’abbia declassato a prodotto di marketing ed esaltato a capolavoro, mi sento di propendere di più per il capolavoro. Un Premio Strega meritato, un libro di cui avevamo bisogno!