Pete Barton, Charlie Macauley, le sorelle Nicely e gli altri abitanti di Amgash sono cresciuti in una cittadina dove i panni sporchi si lavano in casa ma poi sono comunque sulla bocca di tutti. Cresciuti con questo fardello, alcuni hanno scelto di rimanere testimoni e custodi di quel passato, altri hanno cercato riscatto altrove.
Tutto è possibile, l’ultimo romanzo di Elizabeth Strout, è la naturale continuazione del precedente Mi chiamo Lucy Barton, non tanto perché riprende le vicende della protagonista lì dove si erano interrotte quanto perché racconta retroscena sulla sua vita e su quella della sua famiglia. In realtà questo libro, che più che un romanzo sembra una raccolta di racconti dove le vite dei personaggi si accavallano e si mescolano, racchiude un mosaico di vite.
La Strout torna ad Amgash, il paese d’origine di Lucy, e ci presenta alcuni membri della sua comunità, e solo di tanto in tanto si affaccia sulla vita domestica che i fratelli Barton hanno dovuto affrontare, in primis la malattia del padre e la durezza della madre.
Ogni racconto è uno spaccato, un breve squarcio di vita: alcuni episodi sono più drammatici di altri e non sempre viene messo nero su bianco il percorso che ha portato i protagonisti al momento in cui sono, ma tutti sono pervasi di una malinconia acuta per qualcosa che è successo, per la perdita di una persona amata, per i ricordi che affiorando aprono ferite mai chiuse. Tante vite che la Strout inquadra nel momento topico della loro esistenza e che spesso sceglie di congelare nell’attimo della svolta, lasciando a loro la possibilità di compiere un cambiamento di rotta.
Quello che l’autrice vuole trasmettere è che, nonostante tutto, tutto è possibile. Perdonare un torto che ha mandato a monte il sogno di una vita; restare al fianco di un marito vizioso, o che ha subito violenze o, ancora, che ha nascosto la sua vera identità sessuale; nutrire la propria esistenza solitaria delle esperienza altrui; ricominciare da capo con un altro compagno e in un paese straniero; riconoscere in uno strambo attore l’amico di cui si aveva bisogno.
Insomma tanto dolore con cui si è convissuto fino ad esserne annientato, tanti rimpianti ma anche nuovi avvii: questi sono gli spunti su cui la Strout ha intessuto un quadro variopinto ma emotivamente coinvolgente.
A star male non si fa mai l’abitudine, checché ne dica la gente. Ora però, per la prima volta, si rese conto – possibile che fosse davvero la prima volta che se ne rendeva conto? – che esiste qualcosa di assai più tremendo, e cioè quando uno non riesce a star male.
Personalmente credo che se questo libro fosse uscito prima di Mi chiamo Lucy Barton, forse il mio giudizio negativo sul conto delle protagoniste del precedente romanzo (Lucy e sua madre) sarebbe potuto essere diverso e la loro incomunicabilità avrebbe avuto un retroscena più chiaro e più comprensibile.
Fatto sta che in questo Tutto è possibile, l’autrice ha saputo trasmettere al lettore in modo più incisivo un senso di empatia, di comprensione che giustifica certe scelte e ne perdona delle altre. Ha saputo far emozionare.