Jack London viene da una famiglia povera ed è quasi analfabeta, ma percepisce dentro di sé il desiderio di scrivere, di raccontare la vita di quanti ha conosciuto nel Klondike cercando l’oro. Torna a mani vuote, ma con in testa tutto il materiale che gli serve per diventare il più importante scrittore dell’America di quegli anni.
In Figlio del lupo Romana Petri racconta la vita di Jack London, soffermandosi non tanto sul profilo dello scrittore (che pure c’è e in parte niente affatto marginale) ma su quello dell’uomo. È un avventuriero, un sognatore, uno che ha sempre progetti nuovi in cui si butta anima e corpo (e soldi, tanti) per poi rimanere deluso o insoddisfatto. Da qui la necessità di trovare un nuovo obiettivo su cui lavorare, in cui impiegare energie inesauribili.
In tutto questo la scrittura è un fuoco sacro a cui non può sottrarsi, un fiume di idee, di personaggi che lo inseguono e non gli danno tregua, costringendolo alla scrivania. Ma è anche il mezzo che gli permette di realizzare i suoi sogni. Le case, le barche, svernare alle Hawaii, girare il mondo, costruire un ranch. Per tutto questo servono soldi e lui, che in gioventù ha sofferto la fame, non riesce a fare economia, è uno spendaccione.
Alla base di questo suo incessante correre, di questo vagabondare si nasconde un malessere, un’inquietudine che lo perseguiterà fino all’ultimo giorno di vita. Jack insegue il sogno di avere un figlio maschio (avrà due figlie dalla prima moglie Bessie, e una figlia morta a poche ore dalla nascita dalla seconda moglie Charmian); un maschio con cui condividere le avventure, a cui trasmettere il suo sapere, a cui insegnare a superare i propri limiti. Quel desiderio diventa una malattia e andrà a incrinare tutti i rapporti più stretti, non solo quello con le due mogli, ma anche con le figlie con cui non riuscirà a stringere un legame forte.
Non sapeva più dove voleva stare. Da troppo tempo, qualcosa dentro di lui aveva preso a incrinarsi. Si sentiva come un muro attraversato da una crepa. Se avvicinava lo sguardo la vedeva correre, allargarsi.
Quello che colpisce è il suo essere sempre solo pur avendo la casa piena di gente, incompreso pur avendo una moglie che è una geisha e lo asseconda in tutto, incompleto seppur circondato da una famiglia che lo venera come un dio.
Devo ammettere che inizialmente il romanzo non mi ha entusiasmato, al punto che ero tentata di mollarlo. Per chi ha letto Martin Eden, è difficile non riconoscere l’atmosfera generale, le dinamiche amorose con Mabel/Ruth e l’insoddisfazione di Jack/Martin: mi sembrava un copione già scritto e – con tutto il rispetto per la Petri – scritto anche meglio.
Andando avanti però mi sono dovuta ricredere. Non conoscevo le vicende personali di Jack London e Romana Petri non solo ce le racconta, ma scava così in profondità nel suo personaggio da restituirne un’immagine cristallina, umana e tormentata. Un romanzo piacevolissimo che fa venir voglia di cimentarsi con l’intera produzione di London.