Elisabetta Maiorano lavora come insegnante nel carcere minorile di Nisida. Qui conosce Almarina, una ragazza romena di sedici anni arrivata in Italia con il fratellino di cui ha perso le tracce, una vittima a cui si affeziona moltissimo, tanto da voler passare del tempo con lei al di fuori dell’orario di lezione.
Arrivato sul podio del Premio Strega 2020, Almarina di Valeria Parrella è la storia di un rapporto speciale nato tra un’insegnante di matematica e una giovane detenuta che dalla vita ne ha già prese tante.
Una storia la loro potenzialmente molto forte e toccante, ma che avrebbe avuto bisogno di più pagine per riuscire a emozionarmi.
Vederli andare via è la cosa più difficile, perché: dove andranno. Sono ancora così piccoli, e torneranno da dove sono venuti, e dove sono venuti è il motivo per cui stanno qui.
Sicuramente il fatto che il libro sia arrivato a un passo dallo Strega mi ha portato ad avere aspettative elevatissime, ma purtroppo sono molteplici i motivi per cui non mi ha convinta. La prima considerazione da fare è che il rapporto che le due protagoniste instaurano è lasciato un po’ troppo a margine, mentre poteva essere sviluppato meglio e più approfonditamente.
La seconda riguarda invece la ricostruzione delle vicende personali di Elisabetta e Almarina prese singolarmente. Il loro passato viene svelato a poco a poco, in modo non consequenziale, come piccoli pezzi di un puzzle buttati un po’ qua e un po’ là. Niente da ridire se non fosse che non viene mai esplicitato del tutto e in modo chiaro e definitivo. Ecco, diciamo troppo allusivo.
Vuoi trattare argomenti importanti come l’abuso, l’aborto, la procreazione assistita o le difficoltà per un’adozione in Italia? Bene, prenditi la responsabilità di dire le cose come stanno, altrimenti parla d’altro. Non mettere tutto in un calderone limitandoti ad accennare, lasciando che sia il lettore a ricomporre un quadro così frammentario.
Ultima nota dolente è lo stile. Aulico, artificioso, contratto. Personalmente mi ha dato l’impressione di falsità, di una retorica volutamente costruita.
Quello che mi sento di dire è che la storia c’è tutta ed era giusto raccontarla. Forse però si poteva fare con più semplicità, senza forzare la mano sull’impianto narrativo, sulla costruzione frammentaria, sullo stile lezioso. Forse si poteva semplicemente dar maggiore spazio ai sentimenti.