Lincoln Rhyme e la sua aiutante Amelia Sachs sono alle prese con l’ennesimo caso di omicidio: l’attivista anti-americano Robert Moreno è stato ucciso nella sua stanza d’albergo alle Bahamas. Ma questa volta i due devono muoversi con molta cautela poiché ci sono in gioco interessi superiori, legati alla politica.
Tra tutti i thriller che ho letto di questo grande autore – non moltissimi a dire il vero, ma qualcuno sì – La stanza della morte è decisamente il meno convincente.
Questa indagine di Lincoln Rhyme esce dagli schemi a cui Jeffery Deaver ha abituato i suoi lettori. In primis, spiazzano i cambiamenti legati all’investigatore tetraplegico: ha riacquistato l’uso di un braccio ma, ben più scioccante, è lui in prima persona a recarsi sul luogo del delitto. Eh sì, ormai eravamo abituati a vedere l’affascinante Amelia Sachs percorrere la griglia, mentre Rhyme la segue e la guida dall’auricolare. Qui invece lui non è più solo la mente… Viceversa, è Amelia in questo episodio ad apparire più debole e vulnerabile del solito. Un dettaglio trascurabile forse, ma la cosa, in effetti, destabilizza un po’. In più, non c’è una reale sintonia tra i due, sembra che operino l’uno indipendentemente dall’altra.
Altro dato spiazzante è che in questo romanzo manca l’omicida seriale, il pazzo che mescola le carte e depista le indagini. È lampante il tentativo di andare oltre e spostare l’attenzione dal classico thriller alla Deaver verso temi più attuali quali il terrorismo e gli interessi della politica, ma qualcosa secondo me non ha funzionato. Non c’è un momento di vero pathos, e manca quell’adrenalina che ti scorre dentro mentre leggi le rocambolesche sparatorie o i faccia a faccia di Amelia col nemico.
E poi troppi personaggi non indispensabili ai fini della narrazione, troppe riflessioni estemporanee che non aggiungono nulla alle indagine.
No, non ci siamo! Che succede? La coppia Rhyme-Sachs è arrivata al capolinea?