È una sera di agosto quando la tragedia si abbatte sulla famiglia Silvestro e costringe Salvatore, sua moglie Laura e le due figlie a trasferirsi al Nord. Tre anni dopo un nuovo dramma riporta Turi a casa, a Nacamarina, e quel viaggio contro corrente segna per tutti loro una svolta decisiva.
Dopo essersi aggiudicata il Premio Campiello 2018 con Le assaggiatrici, Rosella Postorino torna in libreria con L’estate che perdemmo Dio, un romanzo che ancora una volta indaga le conseguenze del male e della violenza.
L’anno dopo, era ormai piena guerra. È così che la chiamavano – guerra. E ne ebbe l’aspetto. Uomini decimati, vedove, orfani, funerali e dolore, pian piano tutti si vestivano di nero, al prete sull’altare mancavano le parole, non sapeva più che dire alle omelie, bare che entravano e uscivano dalla chiesa.
La guerra in questione è quella messa in campo dalla ’ndrangheta, che non risparmia nessuno, colpisce senza pietà e rende la vita in Calabria insopportabile.
Quando la catastrofe piomba nella loro casa, la dodicenne Caterina non sa che per lei è la fine dell’infanzia e l’inizio di una nuova vita. Una nuova vita altrove: lontano da Nacamarina, lontano dai cugini, dagli zii, dai nonni. Lassù in Altoitalia dove si è trasferita con i genitori e la sorellina Margherita è tutto diverso e a volte i compagni di scuola la prendono in giro, anche se lei non capisce fino in fondo il senso di quegli insulti. Intuisce che la colpa è di quello zio ’Ntoni che è uno sconosciuto per loro, così come è stato un’assenza per i suoi stessi figli, Lena e Giacomo.
È attraverso lo sguardo di questa ragazzina che possiamo ricostruire le vicende che hanno portato Turi e la sua famiglia a fuggire. Ma la loro, in fondo, è una recita, nient’altro che una recita. Come hanno potuto pensare che partire equivalesse a lasciarsi indietro la tragedia? Che vivere altrove avrebbe significato semplicemente dimenticare? Come si fa a fingere per tutta la vita che non si è reduci da una strage?
Sul treno del Sole che lo riporta in Calabria, Salvatore sente le responsabilità piombargli addosso tutte insieme: il suo essere figlio di genitori anziani e indeboliti dai dolori; l’essere il fratello maggiore di una donna rimasta vedova con due figli da crescere; l’aver lasciato un cognato che è stato soprattutto un amico fraterno, un uomo che ha fatto molto per tutti loro. Ma d’altronde “la famiglia non è mai una cosa ragionevole.”
Per Salvatore quel viaggio riapre la ferita aperta dalla partenza di tre anni prima. Non può smettere di pensare di essere un codardo, come tutti quelli che lasciano la propria terra: nessuno lo fa per volontà propria, è una costrizione, un atto di viltà. Eppure lui, Salvo, ha una famiglia da proteggere, una moglie che lo ama e due figlie che cominciano a comprendere certi silenzi degli adulti, certi sguardi, le allusioni. Due figlie che hanno paura, paura di qualcosa che non capiscono appieno, ma di cui sentono il pericolo.
Ed è per loro che Salvatore e Laura non possono che fare l’unica scelta sensata, è per il loro bene che trovano il coraggio di voltare pagina.
La Postorino scrive molto bene e fa entrare noi lettori in una storia che è unica ma che riguarda tutti noi: le stragi perpetrate dalla ’ndrangheta (e della mafia in genere) sono e resteranno per sempre una macchia indelebile sul buon nome di noi italiani.