La vecchia Bonaria Urrai, sarta del paesino di Soreni, si prende in casa la piccola Maria Listru come fill’e anima, per insegnarle la vita e la morte. Ma quello che Maria non sa è che la buona Tzia Bonaria è l’accabadora, colei che aiuta a morire, la madre che consola nel momento dell’estremo addio.
Anche se con qualche anno di ritardo, eccomi qui a parlare di Accabadora, un libro che merita, merita davvero – non a caso la scrittrice sarda si è portata a casa un Premio Campiello di tutto rispetto!
Un romanzo questo da cui emerge un che di antico e nostalgico, un qualcosa che è proprio solo della vita di provincia. Come se lì, nelle brulle terre sarde, lontano dal frastuono delle grandi città dell’Italia continentale, il tempo si sia fermato, sospeso in un immutabile passato. Dove le tecnologie arrivano in ritardo – se arrivano. Dove anche le leggi a volte sono diverse da quelle previste nel resto d’Italia, dove la verità e il parere della maggioranza sono due concetti sovrapponibili.
Se è vero che la terra parla di chi la possiede, le colline della campagna di Soreni erano un discorso complicato. Gli appezzamenti piccoli e irregolari raccontavano di famiglie con troppi figli e nessuna intesa, frantumate in una miriade di confini fatti a muretto a secco in basalto nero, ciascuno con il suo astio a tenerlo su.
La Sardegna che Michela Murgia tratteggia in queste pagine è quella delle superstizioni, delle credenze popolari, dei riti propiziatori e dei malefici. È in questo quadro che si staglia la figura di Tzia Bonaria, avvolta in un’aura di mistero così come nel suo scialle nero.
Accabadora inizia un po’ col freno tirato, ma poi diventa più incalzante e trascina immancabilmente nelle vite delle due protagoniste e nel mistero che si fa via via più evidente. Perché Tzia Bonaria si è presa in casa Maria? E dove va la notte quando esce di soppiatto da casa? La Murgia riesce a trattare un tema spinoso come l’eutanasia, senza risultare in alcun modo pesante né sconfinando in falsi moralismi. Con toni pacati ma non melodrammatici, trasmette il dolore e la pietà con cui certi gesti estremi non sono altro che il segno di un amore profondo per la vita e il rispetto per le scelte altrui.
Non metterti a dare nomi alle cose che non conosci, Maria Listru. Farai tante scelte nella vita che non ti piacerà fare, e le farai anche tu perché vanno fatte, come tutti.
Un libro toccante, reso più incisivo da una scrittura fluida che a tratti si fa aspra e rude, proprio come la terra sarda. Una scrittura evocativa che riporta alla mente quella di Canne al vento di Grazia Deledda o de L’isola di Arturo di Elsa Morante. Grandi scrittrici del passato sulla cui scia muove i primi passi un’altrettanto promettente scrittrice d’oggi.