Da ormai 18 anni, l’avvocato Hector Loursat ha scelto di estraniarsi dalla società e vive isolato nella sua grande casa insieme ad una figlia, Nicole, con cui ha un mutuo rapporto di indifferenza e anaffettività. Sempre ubriaco e rintanato nel suo studio, trascorre le giornate tra colonne di libri impolverati. Ma una notte, destato da un colpo d’arma da fuoco, trova in una delle stanze della villa il cadavere di un giovane sconosciuto, e intravede un’ombra che si dilegua nel buio. Spinto da una sopita animosità, decide di prendere le difese del principale sospettato, l’amante di sua figlia Nicole.
Come molti dei romanzi di Simenon, Gli intrusi è pervaso da una cupezza e da un’atmosfera tetra, una specie di nuvola nera che si aggira sulle teste dei protagonisti. E come molti dei suoi personaggi, anche qui ritroviamo due figure, un padre e una figlia, che vivono come due estranei sotto lo stesso tetto, chiusi nella loro solitudine e in attesa che la vita scivoli definitivamente via.
Già dalle prime battute, l’inquietudine si fa palpabile e l’ambientazione non può che essere il preludio perfetto per un delitto. Ma non tutto il male viene per nuocere, se è proprio grazie a quell’omicidio che Loursat si ridesta da un torpore durato 18 anni, come se all’improvviso fosse permeato da un nuovo vigore, da una nuova linfa vitale.
Aveva voglia di…
«Voglia di vivere»? Non aveva il coraggio di dirlo. Voglia di lottare, allora? Sì, qualcosa di simile. Voglia di scuotersi, di buttare all’aria la paglia della sua porcilaia, di scrollarsi di dosso quegli strani odori che aveva ancora attaccati alla pelle, quel suo io inacidito che aveva covato per troppo tempo fra pareti tappezzate di libri.
E da lì si apre un capitolo più profondamente indagatore dell’animo umano: quanta delicatezza mette Simenon per descrivere il nuovo rapporto tra padre e figlia – una tenerezza appena accennata tra sguardi furtivi e piccoli gesti di affetto – timorosi entrambi di rompere l’incantesimo di quell’imprevisto ritorno ad amare.
E da che si provava una certa diffidenza – se non proprio una vera antipatia – verso questo personaggio burbero, fumatore e bevitore incallito, egoista e freddo, ci si ritrova a sentire un moto d’affetto per un uomo che si porta addosso i segni di un dolore pregresso.
L’ultima parte, incentrata sul dibattito in tribunale, è la degna conclusione di un romanzo ben orchestrato: l’avvocato Loursat, tutt’altro che arrugginito nella pratica dell’arte forense, dà solo breve stoccate ma quando lo fa, colpisce a fondo e lascia al tappeto l’accusa.
Gli intrusi è un romanzo in cui si incastrano perfettamente un’attenta analisi introspettiva – che, a dire il vero, ricorda certi passaggi alla Sándor Márai – ed elementi tipici dei più moderni legal thriller alla John Grisham…