Akàkii Akakievic è un semplice impiegato che vive del suo lavoro e non ha nessun vizio e men che meno svaghi. Un’improvvisa sferzata di vitalità arriva quando è suo malgrado costretto a farsi fare un nuovo cappotto per sostituire quello vecchio e liso. In qualche modo, questo cambia il suo modo di vivere e di vedersi nel contesto sociale che lo circonda.
Nel dicastero di…, ma è meglio non precisarlo. Non c’è categoria più permalosa della burocratica e militare – dei funzionari insomma, d’ogni classe e specie. Oggi ormai ciascuno, anche da privato, considera ingiuriata nella propria persona l’intera società.
Inizia così Il cappotto, un racconto breve in cui Gogol’ riesce con poco a rendere tutta l’amarezza di una vita di miseria e solitudine, non risparmiando un’attenta critica alla società di allora – non molto diversa da quella d’oggi, a dire il vero.
Akàkii Akakievic è il tipico antieroe, un uomo che nella vita non ha ottenuto successi, non ha una famiglia né amici ed è, anzi, oggetto di scherno da parte dei colleghi.
Così scomparve e fu sottratta una creatura, da nessuno difesa, a nessuno cara, trascurata da tutti – senza aver nemmeno attirato su di sé l’attenzione del naturalista, il quale pure non tralascia di far accomodare su uno spillo un’ordinarissima mosca, per studiarsela poi al microscopio; una creatura che sapeva sopportare con umiltà beffe da impiegatucci, e nel sepolcro era scesa senza aver fatto nulla di memorabile – ma alla quale, in compenso, sebbene all’estremo termine della vita, era brillato l’ospite luminoso sotto la specie di un cappotto, che seppe risuscitare per un attimo una povera esistenza, sia pur perché la sciagura potesse abbattersi poi più inesorabilmente su di lei, come si abbatte sulle teste dei forti di questo mondo!…
La necessità di comprarsi un cappotto nuovo mette all’improvviso il protagonista in uno stato di agitazione, di euforia, stravolge la sua quotidianità tanto da renderlo più vulnerabile e meno attento alle sue mansioni. In quel cappotto c’è tutto il senso della sua esistenza: non solo motivo di vanto e di riconoscimento di uno status sociale da parte di chi lo ha sempre disprezzato, ma una vera e propria ragione di vivere.
Nelle ultime battute del racconto – a mio parere, la parte meno riuscita – Gogol’ cambia registro, e da acuto osservatore della realtà diventa un affabulatore fantasioso mettendo in scena un finale surreale e allegorico a dimostrazione che una qualche vendetta alla fine si è compiuta.
Per quanto riguarda lo stile, che dire? Pur essendo un’amante della letteratura ottocentesca, con prose pompose e fronzoli annessi, in questo racconto breve devo ammettere che uno stile così artificioso mi ha causato qualche momento di distrazione. In questo caso mi sento di dire che per avvicinare i lettori ai classici ci vorrebbe uno svecchiamento dei testi, rendendoli con una forma più accessibile e più allettante. Questa traduzione di Clemente Rebora risale agli anni ’20: è datata e si sente, poco moderna e poco accomodante.