Alex Portnoy, a tu per tu col suo analista, ripercorre passo passo la sua vita, cercando le motivazioni alla sua refrattarietà ad un legame stabile e duraturo e finendo sempre a parlare della sua ossessione per il sesso e per l’autoerotismo.
Quanto possono essere difficili l’infanzia e l’adolescenza di un americano ebreo, vissuto nella bambagia? Eppure il protagonista di questo romanzo si dipinge come l’essere più infelice della terra, cresciuto tra una mamma chioccia e un padre infaticabile lavoratore. Quello che ne emerge è un tipico quadro di una famiglia piccolo-borgese degli anni ’50: lei è una instancabile donna di casa, impegnata a lustrare i pavimenti che ci si potrebbe persino mangiare, a cucinare cibo kosher, a curare l’igiene dei figli; lui un modesto assicuratore che si accontenta di una gratifica e un premio aziendale ogni tanto e vive per la sua famiglia (Alex – era solito spiegarmi – un uomo deve avere un ombrello in caso di pioggia. Non si lasciano una moglie e un figlio sotto la pioggia senza un ombrello!).
Due genitori normalissimi, in definitiva. Ma quanta rabbia repressa ricasca sulle loro teste, soprattutto verso una madre-radar – a quanto pare portavoce in terra del volere di Dio – che lo assilla con le sue preoccupazioni e col senso del dovere.
Dottor Spielvogel, questa è la mia vita, la mia unica vita, e la sto vivendo da protagonista di una barzelletta ebraica! Io sono il figlio in una barzelletta ebraica… solo che non è affatto una barzelletta!
C’è tanto di quel materiale in questo libro che lo stesso Freud non saprebbe dove mettersi le mani. Un fiume di parole senza sosta, senza peli sulla lingua né freni inibitori (nelle parole come nei fatti) per questo protagonista ormai trentatreenne che sviscera la sua vita dall’infanzia alla maturità – sempre che di maturità si possa parlare! Un insieme un po’ confuso di episodi da cui emerge una personalità repressa e in conflitto con i dogmi della sua famiglia. Ma soprattutto da queste pagine emerge un’insormontabile dicotomia tra sesso ed ebraismo: il lungo e provocatorio monologo diventa un atto d’accusa verso la religione – in primis quella ebraica, ma anche quella cristiana – e verso qualsiasi forma di fanatismo religioso.
Come riescono a essere disgustosi gli esseri umani! Io disprezzo gli ebrei per la loro ristrettezza mentale, per l’ostentazione della loro rettitudine, per l’incredibile, bizzarra pretesa di quei trogloditi dei miei genitori e parenti di essere qualcosa di superiore… ma quando si tratta di pacchianeria e ostentazione, di credenze che farebbero vergognare persino un gorilla, è praticamente impossibile raggiungere i livelli dei goyim.
Ma cosa c’è che non va in questo libro che è sboccato e irriverente ma a tratti esilarante? Che a volte si perde nei meandri dei suoi ragionamenti e ti ritrovi a pensare ad altro. Ecco, è incostante – o forse lo sono io! Ma alla fine il risultato è lo stesso. Ho mancato di attenzione…