Quando il venditore ambulante Mattes Ritter diventa padre di un figlio maschio dopo una sfilza di femmine, le sue energie sono tutte concentrare nel fare del piccolo Nachman un uomo di fede, un saggio conoscitore del volere divino. La povertà e lo scandalo che si abbatte sulla famiglia costringono Mattes e i suoi figli a trasferirsi a Varsavia, dove le nuove idee socialiste circolano liberamente mettendo in crisi tutta l’impalcatura di dogmi religiosi imparati con tanti sforzi.
Meno caratteristico ma non meno interessante rispetto a opere più famose dello scrittore polacco Israel Joshua Singer quali Yoshe Kalb e La famiglia Karnovski, A oriente del giardino dell’Eden è un romanzo che non tratta nel dettaglio la tematica ebraica, bensì si focalizza sulla situazione sociale e politica nell’Europa dell’Est nel primo dopoguerra.
Se la prima parte è tutta incentrata nel racconto della vita misera ma moralmente ineccepibile della tribù dei Ritter, è con l’arrivo a Varsavia che si verifica un vero e proprio processo di crescita.
In particolare, due sono i personaggi di cui maggiormente seguiamo le vicissitudini. La prima è Sheindel, la primogenita, la saggia, colei che si fa carico delle difficoltà dei fratelli dimostrando una resilienza granitica nel trovare nuovi escamotage alla loro situazione drammatica.
Il secondo è Nachman, che via via diventerà l’unico catalizzatore dell’attenzione del lettore. Lui è il privilegiato, il prediletto di casa Ritter; per lui il padre ha fatto sacrifici, si è indebitato; è su di lui che sono proiettate le aspettative di rispettabilità e riscatto dell’intero nucleo familiare.
Col sopraggiungere della guerra però la vita si fa ancor più difficile e Nachman entrerà in contatto con dei sovversivi socialisti che vogliono combattere le condizioni di disuguaglianza tra ricchi e poveri. Così, dall’essere un fervente credente diventerà ben presto un rivoluzionario ancor più fervente.
Fortissimo è il contrasto che l’autore vuole far arrivare tra l’inappuntabile fede religiosa del vecchio Mattes Ritter, che accetta con remissività ciò che Dio ha deciso per lui, destinandolo a una vita di stenti e di privazioni, e suo figlio, un uomo del suo tempo, per cui le disuguaglianze sociali necessitano di una partecipazione attiva nel processo di cambiamento.
I destini degli uomini non erano determinati né dalla fortuna né dal fato, né da un’entità benigna né da un’entità malevola, come un tempo gli era stato insegnato; i principi che muovevano il mondo erano gli interessi economici. Esistevano due classi, i lavoratori e i padroni. Il mondo sarebbe potuto essere un luogo più felice, gli esseri umani avrebbero potuto vivere come fratelli, se non fosse stato per l’opposizione della classe dominane, per le sanguisughe e gli sfruttatori.
La fame, la prigionia, la fuga verso l’Unione Sovietica – visto come l’Eden, il paradiso in cui non ci sono padroni – e poi, anche lì, le sofferenze, le privazioni e le condizioni di vita indecenti: niente sembra scalfire la certezza di Nachman che il socialismo sia la strada giusta verso un mondo più equo. La sua fede è incrollabile, tutte le energie sono spese per la causa comune e nessun sacrificio per lui è troppo grande. Finché…
Finché è costretto a vagare in una terra di frontiera, malvisto dal governo polacco quanto da quello sovietico, senza una destinazione, senza una casa, ma soprattutto senza più una fede in cui credere. Il sogno socialista si è infranto, calpestato dai giochi di potere e per lui, che per tutta la vita ha anteposto i principi socialisti ai propri interessi personali, è una sconfitta senza pari.