Nel terremoto che ha distrutto L’Aquila, Caterina ha perso una sorella gemella, Olivia, ma ha acquistato un nipote adolescente, Marco, un ragazzo chiuso e spesso impenetrabile. In questa nuova realtà i due dovranno ricompattare la famiglia e ricostruire se stessi.
Con Bella mia, Donatella Di Pietrantonio entra in un dolore che è degli aquilani ma che appartiene un po’ a tutti noi italiani. Il terremoto del 6 aprile 2009 è uno strappo, una ferita aperta ancora oggi: a quasi dieci anni da quella notte in cui la terra ha tremato portando con sé morte e distruzione, la ricostruzione della città è ancora lontana.
Caterina, io narrante di questa storia, ha perso una parte di sé e si è ritrovata improvvisamente madre di scorta, una madre non sempre tenera e con le sue evidenti difficoltà ad abbattere il muro dell’incomunicabilità. Un ruolo, il suo, che non ha voluto e che non sa gestire.
Non è mio figlio. Marco e io non ci apparteniamo. E se una gemella doveva morire, non ho voluto essere io la superstite. La lotteria del terremoto ha estratto a caso e li ha spaiati, Olivia e la sua creatura. Ha salvato me, e a volte ho nostalgia della fine che mi è stata negata. Non sono madre, lui non è frutto di questo ventre magro. È un altro, nato da un’altra quasi uguale a me. Io non lo amo, spesso non lo amo…
Di contro, c’è Marco, un adolescente spigoloso che deve fare i conti con i problemi della sua età ma soprattutto con il suo nuovo stato di orfano; deve abituarsi a crescere con due donne, la nonna e una zia che le ricorda continuamente la madre, e il suo cuore è spaccato a metà come la casa che lo ha accolto fino a quel fatidico 6 aprile.
Caterina e Marco dovranno trovare un nuovo linguaggio per capirsi, per comunicare il loro dolore – lo stesso, ma diversissimo – ma soprattutto dovranno trovare un equilibrio in cui ricostruire se stessi e la famiglia che sono diventati.
Donatella Di Pietrantonio ha uno stile delicato, a tratti lirico con le sue frasi spezzate, emozionanti e cariche di pathos. L’autrice non è nuova al dramma: l’ha raccontato in Mia madre è un fiume e ne L’Arminuta, ma quello che riporta in queste pagine è un dramma personale che fa da specchio ad uno più grande, quello di tutto l’Abruzzo, quello dell’Italia intera che si è fermata per guardare inerme le conseguenze della tragedia.
E come i due protagonisti di questo libro, anche L’Aquila cerca di risorgere dalle sue ceneri, con le sue novantanove chiese, novantanove piazze e novantanove gru sempre all’opera.