In una Madrid che si è finalmente liberata della dittatura di Franco, Berta sposa l’uomo dei suoi sogni, Tomás, dopo molti anni di fidanzamento e un lungo periodo di lontananza che lui ha trascorso in Inghilterra per studiare a Oxford. Quello che però Berta non sa è che nel frattempo Tom ha fatto una scelta che condizionerà le loro vite e quelle dei loro figli per sempre.
Berta Isla è l’ultimo romanzo di Javier Marías e rispetto ai due che ho letto in precedenza, Domani nella battaglia pensa a me e Gli innamoramenti, l’ho trovato il più compiuto non solo a livello di trama ma anche di costruzione psicologica dei personaggi.
Quella tra Berta e Tomás nasce come una storia d’amore adolescenziale che via via cresce con loro fino al coronamento tanto agognato, il matrimonio, e alla nascita di due figli, Guillermo ed Elisa. Ma quanto realmente sanno l’una dell’altro? Da subito la loro vita coniugale sarà costellata di partenze, lunghi periodi in cui Tom è via, è irrintracciabile e al suo ritorno è cupo, misterioso, indecifrabile.
Quel poco che Berta sa delle assenze del marito non può che aprire il varco ha una serie di congetture tra le più spaventose: quale missione ha dovuto affrontare, con quali mezzi? Quali attentati ha sventato? Quante persone ha salvato e quante ne ha uccise?
Quella di Berta diventa una vita fatta di attese, nell’angoscia di non vedere suo marito tornare a casa, ma anche con la speranza, sempre la stessa, che questa partenza è stata l’ultima, che una separazione così lunga ha avuto un senso e che mai più ci saranno allontanamenti o rischi di alcun genere né per lui né per i bambini né per se stessa.
Può una donna rimanere per anni con questi interrogativi irrisolti? Può aspettare mesi senza avere notizie del suo uomo, del padre dei suoi figli? Eppure, nonostante l’apprensione per le sorti del marito, Berta è consapevole che quella vita di contrabbando rende Tom vitale, lo lusinga, così come sa che limitarlo in una vita normale, familiare, gli farebbe rimpiangere l’azione, i rischi, l’adrenalina che è conseguenza di quella sua realtà parallela.
Com’è facile non sapere niente, com’è facile muoversi a tentoni, com’è facile essere ingannati e ancora di più mentire, non richiede alcun talento ed è alla portata di tutti, è strano che i bugiardi si credano tanto astuti, quando non occorre nessuna abilità. Tutto quello che ci viene detto può essere e non essere, il fatto più decisivo come quello più irrilevante, il più innocuo come il più cruciale, quello che decide della nostra esistenza come quello che nemmeno la sfiora. Possiamo vivere nell’errore continuo, credere di avere una vita comprensibile, stabile e afferrabile, e poi scoprire che tutto è insicuro, melmoso, sfuggente, che non abbiamo un terreno solido su cui poggiare; o che tutto è una rappresentazione, come se fossimo a teatro convinti di vivere la realtà e non ci fossimo resi conto che si sono spente le luci e si è alzato il sipario e che per di più siamo sul palcoscenico e non sopra o sotto, tra gli spettatori, o che siamo sullo schermo di un cinema senza poterne uscire, intrappolati nel film e obbligati a ripeterci a ogni nuova proiezione, trasformati in celluloide e incapaci di alterare i fatti, la trama, le inquadrature e neppure il punto di vista né la luce, della storia che qualcun altro ha deciso che fosse per sempre com’è.
I capitoli – a dire il vero la maggior parte – in cui è protagonista Berta sono narrati in prima persona così da rendere vividi i suoi sentimenti, le sue paure, i ricordi ma anche il vorticare dei pensieri e di supposizioni, di congetture riguardo alla segretezza del marito. Quelli invece che riguardano Tomás e la sua esperienza a Londra, a partire da come tutto è cominciato a come si è concluso, sono raccontati in terza persona e seguono le tappe salienti di quest’uomo in balia degli ordini.
Come la morte assomiglia alla vita: questa è l’opinione che ci si fa di Tom, un uomo che continua a vivere, forse in fuga, forse nascosto, forse sotto altre sembianze; un uomo che vive una vita parallela, che può avere un’altra famiglia, un lavoro insospettabile rispetto alle sue competenze, un uomo che può non tornare mai più o tornare dopo vent’anni, dopo trenta, e cercare di riprendersi quello che considera suo, ossia l’unico pezzo reale della sua vita, la vita che si era scelto prima di essere ingaggiato dai servizi segreti.
Quello che denota la scrittura di Marías è uno stile verboso che tende ad essere prolisso, eppure mai pesante. Se consideriamo che il libro consta di oltre 500 pagine e che ciò che avviene si potrebbe semplicemente concentrare in un centinaio, stupisce come l’autore sia in grado di rimestare nella psiche dei protagonisti, scavando e scavando più a fondo, senza mai risultare ridondante.
L’interesse del lettore resta vivido fino alla fine con la curiosità di scoprire cosa è realmente avvenuto a Tom, ma nello stesso tempo con il rammarico di arrivare all’ultima parola e chiudere un libro che è costruito magistralmente, con i tempi di suspence e pathos studiati al dettaglio.
C’è tutto in queste pagine: c’è la storia d’amore, c’è lo spionaggio, c’è il flusso di coscienza che rimanda al romanzo psicologico. A mio avviso, il miglior romanzo di Marías.