Nel 1924 a Chicago, due brillanti rampolli di alto rango, Nathan Leopold e Richard Loeb (nel libro ribattezzati Judd Steiner e Artie Straus), progettarono il delitto perfetto, ma commisero qualche errore che determinò la loro cattura. Verranno condannati all’ergastolo più novantanove anni supplementari.
Diversamente dalla maggior parte dei lettori che hanno fatto il percorso Capote-Levin, io ho preferito iniziare proprio dall’antesignano Comupulsion, che precede di dieci anni l’uscita di A sangue freddo, il più famoso romanzo-verità della storia della letteratura americana.
I protagonisti di questa storia sono due ragazzi ricchi, acculturati e viziati, di un’intelligenza superiore alla media, che per oltre un anno progettano il delitto perfetto per dimostrare che un superuomo può agire senza tener conto delle leggi imposte dalla società.
Per essere al di sopra e al di là della legge, l’autore del delitto non dev’essere spinto dal bisogno né da altri moventi emotivi tipicamente umani quali la lussuria, l’odio o l’avidità. In tal caso il delitto è puro atto, il gesto di un essere assolutamente libero, di un superuomo.
Il caso ebbe un impatto mediatico senza precedenti, proprio in virtù dell’assenza di un movente: l’uccisione di un ragazzino quattordicenne scelto a caso, solo per dimostrare una presunta superiorità intellettuale secondo l’accezione delineata da Nietzsche. E, ad aggravare la loro situazione agli occhi del mondo, Judd e Artie erano due “invertiti”, avevano cioè comportamenti omosessuali.
Il ruolo di Meyer Levin (che nel libro usa lo pseudonimo di Sid) è in primis quello di giovane giornalista informato sui fatti, ma è anche un tassello fondamentale nelle indagini perché è lui che scopre l’identità del cadavere – facendo di fatto saltare le trattative del riscatto – ed è lui, in quanto coetaneo e collega di college dei due imputati, che viene incaricato di indagare le reazioni emotive di quanti sono in qualche modo coinvolti nella vicenda, inclusi le ragazze con cui hanno allacciato una relazione sentimentale e i compagni di studi che frequentano.
Non da ultimo – ragion per cui l’autore si decise a scrivere il romanzo – Levin viene chiamato per valutare la stabilità mentale dell’unico sopravvissuto, Judd, che dopo trentatré anni di carcere chiede la scarcerazione. Insomma la sua non è una parte marginale della storia, un mero osservatore a fini giornalistici, ma ha una rilevanza centrale nella vicenda.
Inoltre, come ammette lui stesso, è in virtù delle somiglianze con i due ragazzi – l’essere ebrei, tra i diciotto e i diciannove anni con una laurea ottenuta precocemente e la frequentazione degli stessi ambienti universitari – che l’autore si sente profondamente affine ai due assassini. Nonostante questa presunta affinità e soprattutto nonostante aver fatto una conoscenza personale dei ragazzi (anche se a livello di frequentazione e non di intima amicizia), lo scrittore non dimentica il ruolo che gli è stato assegnato, quello cioè di fare un resoconto oggettivo degli avvenimenti in corso, senza lasciarsi influenzare da condizionamenti personali. E anche quando dà spazio alle sue osservazioni, lo fa usando per lo più il plurale, a dimostrazione del fatto che il suo è il punto di vista comune al comparto dei giornalisti.
Il romanzo può essere idealmente suddiviso in tre parti: il racconto dei fatti, la preparazione al processo e il dibattimento in aula. Delle tre, quella dedicata alle visite degli alienisti è quella in cui maggiormente si caratterizza la personalità dei ragazzi e si analizza il loro vissuto in cerca di attenuanti che giustificherebbe il delitto.
Entrano quindi in gioco le teorie psicanalitiche che, se oggi sono universalmente riconosciute, al momento dei fatti non erano mai state applicate all’ambito giuridico. Ecco quindi che si citano il complesso di Edipo (in entrambi è evidente un rapporto conflittuale col padre), i tanti riferimenti sessuali – a partire dalla forma fallica dell’arma – e ancora la scelta di una vittima ebrea, a dimostrazione dell’odio di sé che, secondo Freud, tutti gli ebrei provano.
Altro tema sviscerato nel dettaglio è l’ereditarietà dei geni, dal momento che in entrambe le famiglie non manca almeno un soggetto con una tara mentale. Quello che gli avvocati e gli psicologi della difesa vogliono dimostrare è che i due soffrono di un disturbo funzionale e che per questo non sono responsabili delle loro azioni.
Insomma in questa parte l’analisi della psiche dei due ragazzi – benché accurata – diventa un tantino prolissa, tanto più che alle considerazioni degli investigatori, degli alienisti e degli avvocati, si aggiungono le riflessioni dei giornalisti.
La parte conclusiva, quella cioè dedicata al dibattito in tribunale, ha invece un piglio rapido e accattivante: l’accusa e la difesa se la giocano punto a punto, presentando le rispettive tesi, interrogando e controinterrogando i testimoni e gli specialisti e infine pronunciando con enfasi le loro arringhe finali. Uno scontro giuridico che non ha nulla da invidiare ai thriller legali più in voga (senza peraltro la necessità di affidare i colpi di scena a trovate accattivanti da un punto di vista letterario ma giuridicamente fasulle, ma limitandosi a descrivere i fatti così come sono realmente accaduti in aula).
Un caso quello di Loeb-Leopold che ha scatenato l’opinione pubblica e ha dato la stura al sensazionalismo giornalistico: a quanto pare, infatti, i giornalisti delle testate principali erano costantemente tenuti aggiornati sulle evoluzioni delle indagini, erano invitati a seguire le tappe dei due assassini nella ricostruzione dei loro movimenti ed erano partecipanti attivi al tavolo di studi preliminari, potendo contare inoltre sulla consultazione dei verbali degli interrogatori e delle perizie degli alienisti.
Ancora oggi, quel delitto è considerato come un atto i cui due autori erano organicamente legati, come due gemelli siamesi. Ciò può essere vero dal punto di vista della colpevolezza giuridica, ma non per questo arriveremo a capire.
Due personalità simili ma, in definitiva, molto diverse. Si direbbero complementari: dove non arriva l’uno, interviene l’altro. Tante sono le domande in merito che non avranno mai risposta. Se non si fossero incontrati, non ci sarebbe stato alcun omicidio? Perché sottoporsi allo stesso processo, quando la mente e il braccio che ha impugnato l’arma del delitto sono di uno solo?
Ecco, Compulsion non risponde ai tanti interrogativi, ma dà comunque un quadro ben chiaro del processo tenutosi contro due brillanti giovani che potenzialmente potevano arrivare molto in alto ma hanno scientemente buttato all’aria il loro futuro.