Kristóf Kőmives è un giudice integerrimo in procinto di sancire il divorzio di una coppia i cui nomi riemergono dal suo passato: lui è un suo ex-compagno di scuola, il medico Imre Greiner, e lei è Anna Fazekas, una fanciulla incontrata in rare occasioni al tempo del suo apprendistato. Eppure, attraverso un doloroso faccia a faccia con Imre, Kristóf apprenderà perché non sarà più necessario il suo intervento nella causa di divorzio.
Divorzio a Buda potrebbe essere idealmente diviso in due parti: nella prima lo scrittore ungherese dà libero a sfogo a tutta una serie di riflessioni sulla società del suo tempo. E non disdegna di criticare aspramente alcuni atteggiamenti o mode della media borghesia a cui appartiene: così si dimostra reticente sul linguaggio licenzioso e volgare che utilizzano i giovani per confrontarsi sui temi sessuali; critica l’attaccamento al denaro che, dopo la guerra, sembra esser diventato l’unico scopo per cui valga la pena di vivere; o ancora e più ostentatamente rimprovera ai suoi contemporanei di ricorrere con troppa facilità al divorzio, dando in mano a un giudice il compito di scogliere ciò che Dio ha unito.
Ma quel che più è lampante è la disapprovazione nei confronti delle nevrosi di cui sono vittime i suoi contemporanei, nevrosi che sono “il sintomo tipico di una cultura sclerotica, irrigidita nelle forme inflessibili della civiltà, di una cultura prossima alla fine”, nevrosi che in un modo o nell’altro non risparmiano neanche i due protagonisti di questo romanzo. E ancora, attraverso il giudice Kőmives, fervente conservatore e sostenitore dello status quo, Márai punta il dito sulla nuova generazione, insoddisfatta e alla ricerca di “altri vocabolari condivisibili per esprimere se stessa” ora che, terminata la guerra, l’autorità dei padri è in declino. Insomma, quello che emerge è una visione piuttosto amareggiata di quanto lo scrittore vede intorno a sé – temi che saranno poi ripresi nei testi successivi.
Ormai ho imparato che Sándor Márai è uno che ama fare voli pindarici, ma una critica gliela devo fare: in questo libro ho come l’impressione che tutta quella materia magmatica (ma assolutamente geniale) gli sia un po’ sfuggita di mano, perché poco sostenuta dalla narrazione. È come se nel tratteggiare il carattere del protagonista abbia finito per compiacersi di fare un’analisi radicale di tutto ciò che lo circonda, dimenticando che i suoi personaggi sono in attesa di aprire le danze.
In effetti, è solo nella seconda metà del libro che si entra nel vivo della narrazione, ossia si assiste all’incontro tra Imre e Kristóf. Ed è in questa seconda parte che ho ritrovato il Sándor Márai che amo, quello che scava a fondo nei sentimenti umani, che sviscera i nodi cruciali della vita interiore dei suoi personaggi, che li costringe a gettare la maschera.
Amare è una specie di isoritmia. Un caso talmente prodigioso… come se nell’universo ci fossero due pianeti con un’orbita uguale, con un’atmosfera identica, composti della stessa materia. Un caso talmente raro, sul quale non si può certo contare. Forse non si verifica nemmeno.
A volte la sua analisi introspettiva si fa così brutale e schiacciante che il lettore ne resta stordito, quasi fisicamente ferito, come un’operazione a cuore aperto ma senza anestesia. E in questo processo di introspezione a farne le spese sono in primis i suoi stessi personaggi: così il giudice dovrà riconoscere un sentimento che ha cercato di tener nascosto ad ogni costo, negando la verità anche a se stesso, un sentimento che è sempre stato lì, appena sotto la superficie, e adesso riaffiora con una forza dirompente sconvolgendo la sua stessa vita.
Ecco, è qui che arriva la nota dolente di questo libro: quando vorresti continuare a seguire Kristóf per vedere come uscirà dall’impasse, Márai mette la parola Fine…
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