Ambientata a Washington durante quattro, convulse settimane, Eccomi è la storia di una famiglia in crisi. Mentre Jacob, Julia e i loro tre figli sono costretti a confrontarsi con la distanza tra la vita che desiderano e quella che si trovano a vivere, arrivano da Israele alcuni parenti in visita. I tradimenti coniugali veri o presunti, le frustrazioni professionali, le ribellioni adolescenziali e le domande esistenziali dei figli, i pensieri suicidi del nonno, la malattia del cane: tutto per Jacob e Julia rimane come sospeso quando un forte terremoto colpisce il Medio Oriente, innescando una serie di reazioni a catena che portano all’invasione dello stato di Israele. Di fronte a questo scenario inatteso, tutti sono costretti a confrontarsi con scelte a cui non erano preparati, e a interrogarsi sul significato della parola casa.
Eccomi è un romanzo bellissimo ma imperfetto, direi. Un “quasi capolavoro” – a volte eccessivo e ridondante – che consacra Jonathan Safran Foer tra i più interessanti narratori contemporanei.
Una narrazione fluviale e stracolma di eventi, personaggi, considerazioni e stati d’animo. A guardar bene, dentro c’è un po’ di tutto. Il distacco di una coppia e l’amore per i figli, l’eredità dell’ebraismo e gli strascichi dell’Olocausto, i sensi di colpa e le scelte quotidiane, il tradimento e la frustrazione: tanti snodi narrativi, che si intrecciano e si riallacciano, di tanto in tanto, proprio mentre si sta scatenando un nuovo conflitto, che mette in pericolo la speranza stessa nel futuro.
Foer sa osare e puntare in alto. Potrebbe limitarsi a fare ciò che il lettore si attende da lui… ed invece cambia continuamente registro, con sovrapposizioni temporali, di personaggi, di conversazioni. Ne esce un ritratto familiare denso ed appassionante, con personaggi che restano nella memoria.
La storia di Jacob e Julie, dei loro tre figli Sam, Max e Benji, dei nonni Irv e Deborah, del bisnonno Isaac e del cane Argo – pur essendo ambientata al giorno d’oggi – abbraccia un lasso di tempo piuttosto vasto: passato e futuro vengono risucchiati all’interno della narrazione, come in una sorta di grande frullatore della storia, restituendoci un originale quanto ammaliante punto di vista sulla storia di una famiglia di ebrei americani e sul loro modo di confrontarsi con un passato “scomodo” e ricco di implicazioni socio-politiche mai sopite del tutto.
Non facilissimo, a volte arduo per alcune divagazioni filosofiche spinte all’estremo… ma comunque un romanzo da leggere, per toccare con mano l’evoluzione della letteratura americana contemporanea: l’eredità di Philip Roth (che comunque sembra godere di ottima salute) è in ottime mani.