I membri della famiglia Joad, da sempre coltivatori di terra in Oklahoma, sono costretti a lasciare tutto per cercare fortuna in California. Le difficoltà che dovranno affrontare lungo il viaggio e all’arrivo non spegneranno però la forza di volontà e la speranza di tempi migliori.
Furore è un grande, colossale affresco dell’America degli anni Trenta, quando la Grande Depressione ridusse migliaia di persone sull’orlo di un baratro.
È il romanzo simbolo della crisi economica ma anche della speranza e della voglia di lottare fino allo strenuo delle forze per la sopravvivenza, per garantirsi un futuro, per mantenere unita la famiglia. Questi sono i valori che hanno mosso per generazioni i mezzadri che abitano le campagne americane e questi sono i valori che escono dalle pagine con una forza dirompente.
Due sono i personaggi che più di tutti rappresentano la lotta per la sopravvivenza, due i trascinatori che non si lasciano piegare da niente: Tom e la mamma. E forse proprio loro sono il simbolo di un cambiamento importante che è in atto nella famiglia americana in crisi: una donna e un figlio appena uscito di prigione sono coloro che reggono le sorti di un intero clan, che impartiscono ordini, che mantengono calma e lucidità nonostante le condizioni avverse, la fame, la perdita di persone care. Due figure uniche che si distinguono per onestà, bontà d’animo e instancabile capacità di rimboccarsi le maniche e ricominciare da capo.
Oltre seicento pagine di pura umanità, di dolore, di sofferenza, di forza di volontà. Un romanzo di estremo realismo nelle situazioni, nelle atmosfere, nei dialoghi, nelle parti puramente didascaliche. Tutto improntato a far immedesimare il lettore nella tragicità della vita precaria dei contadini sfrattati dalle loro terre – “loro” solo in virtù delle origini, ma di proprietà di chi ormai non sa che farsene della forza delle braccia e del sudore delle fronti e affida il lavoro alle macchine per incrementarne la rendita.
E così sono costretti a far fagotto, a lasciare il paese in cui sono nati, in cui hanno messo al mondo dei figli, in cui hanno seppellito genitori, nonni, fratelli, dove intere generazioni di famiglie hanno vissuto facendo del lavoro – durissimo ma onesto – la loro ragione di vita. E quest’orda di gente si mette in marcia sulla Route 66, una fiumana di persone dirette alla terra promessa, la California, ricca e prosperosa, che – si dice – sia in cerca di manodopera.
“Di giorno, i loro veicoli sgangherati formicolavano sull’asfalto, e sull’imbrunire si raggruppavano dove c’era acqua. Si raggruppavano perché sgomenti di sentirsi soli e spodestati; e facevano vita in comune, spartendo il vitto, le ansie e le speranze. Così accadeva che una famiglia a sera faceva sosta in un dato posto solo perché c’era l’acqua, e la seconda che sopraggiungeva vi si fermava solo perché trovava compagnia; e la terza si fermava perché le prime due avevano trovato acqua e compagnia.”
Le disavventure della famiglia Joad sono intervallate da brevi capitoli dove il resoconto della migrazione ha una veridicità oggettiva; una sorta di reportage informativo che è il frutto di studi approfonditi che Steinbech ha compiuto sui giornali dell’epoca – un resoconto veritiero, nonostante negli anni si sia cercato di screditare la sua versione per minimizzare la gravità delle condizioni in cui versavano gli emigranti e “coprire” così l’inettitudine dello Stato nel far fronte alla situazione. Furore è un capolavoro, non c’è dubbio, e non merita di essere riposto su uno scaffale e lì dimenticato, ma va ripreso, riaperto, condiviso. E io oggi sono qui a condividerlo con voi…
John Steinbech
Furore
Bompiani, 2013
pp. 633