Dopo la morte del padre, Giuseppe inizia ad avvertire alcuni sintomi di malessere che sfociano improvvisamente in attacchi di panico senza controllo. Un lungo percorso con uno psicoanalista, lo aiuterà a venire a capo delle zone d’ombra della sua psiche e a scegliere una strada completamente diversa da quella che si era immaginato.
Il male oscuro, romanzo autobiografico di Giuseppe Berto, pubblicato nel 1964 ma di un’attualità impressionante, è la storia di una nevrosi che toglie il fiato e che non permette di vivere la vita appieno.
L’autore racconta il male oscuro che lo affligge sia da un punto di vista oggettivo e per quanto possibile medico, ma anche e soprattutto in chiave psicoanalitica.
Ripercorrendo vari episodi della sua vita, dalla giovinezza all’età adulta, Berto rilegge il suo malessere come una punizione, per non dire una vendetta, per non essere stato al capezzale del padre al momento della sua morte.
L’autocommiserazione con cui analizza la situazione ha qualcosa di ridicolo e pietoso insieme, perfino quando arriva a meditare il suicidio come definitivo rimedio al dolore.
I sensi di colpa e il rammarico per quel che non ha fatto e non ha detto al padre moribondo crescono dentro di lui fino a sconfinare in una malattia che non è più solo psicologica, ma fisica. Da quel momento tutto diventa difficile, tutto può potenzialmente scatenare una crisi dalle conseguenze imprevedibili e devastanti.
Poiché è scritto in prima persona, noi lettori entriamo per così dire nella testa del protagonista, seguiamo i contorti meandri della sua mente paranoica e siamo presi al laccio dalle sue crisi: il terrore, il senso di soffocamento, la paura di morire, le vertigini e l’impossibilità di interpretare la situazione con lucidità e calma. Entriamo cioè nell’attacco di panico, dentro la nevrosi.
Penetro in fondo ai miei occhi per scoprirvi la paura e la nullità, ecco questo sono io sul limite della pazzia e del suicidio, potrà essere un momento o l’altro ma verrà, tante volte abbiamo visto da vicino la morte per malattia o violenza ma non era così la morte né così la fine, questo è qualcosa di più perverso che va al di là della fine è lo smarrimento dell’eternità forse l’inferno oltre la vita, ma perché a me non bastano le colpe verso il padre per un così disperato tracollo, non possono bastare, altre ce ne sono chissà quante altre tutto un groviglio di colpe alle mie spalle, bestemmie provocatorie e eiaculazioni solitarie, sfide a Dio e sempre l’inferno barattato per un attimo di piacere solitario…
Berto descrive l’angoscia in modo così diretto e senza sotterfugi che il lettore lo prova proprio sulla sua pelle quel malessere, quell’atmosfera soffocante e claustrofobica. Un percorso doloroso il suo, che lo costringe a tirare fuori ciò che c’è di più recondito: non solo quindi il rapporto col padre e con il contesto familiare in genere, ma la sessualità repressa e l’ambizione professionale sono le cause del suo sentirsi in difetto.
Il romanzo è una valanga di pensieri messi sulla pagina senza filtri, in un flusso di coscienza riprodotto così come passa per la testa, in completa libertà. Non a caso, le parole escono a cascata, senza argini, ovverosia senza punteggiatura che dia il tempo di mettere a fuoco un concetto prima di gettarsi in quello successivo.
È un libro su cui all’inizio bisogna prendere le misure, ma che poi travolge inevitabilmente. Imperdibile!