Sono migliaia le donne sovietiche che hanno combattuto nella Seconda guerra mondiale: tiratrici scelte, aviatrici, soldatesse di fanteria, carriste, sminatrici, infermiere, lavandaie, partigiane. È la loro testimonianza che ha fatto sì che questo libro venisse alla luce.
Ricordare fa paura, ma fa ancora più paura non ricordare più.
Ci sono due diversi modi di raccontare la guerra: quello ufficiale di eroi e eroine che hanno rischiato (e a migliaia perso) la vita, che hanno dimostrato il loro coraggio e il loro valore, che sono tornati mutilati o ciechi ma immensamente onorati di aver combattuto per la Patria, per Stalin, per difendere la propria terra. Poi c’è un’altra guerra. Quella raccontata in un bisbiglio, lontano da orecchie maschili che hanno premura di nascondere i dettagli più intimi, più scabrosi, meno eroici, e questo perché nulla deturpi l’immagine valorosa di chi era in prima linea.
È la voce delle donne a parlare, donne sovietiche che hanno vinto la guerra seppur a caro prezzo. Ed è questa la versione che la giornalista bielorussa Svetlana Aleksievič vuole restituire al mondo in La guerra non ha un volto di donna, una versione meno brillante forse ma pur sempre veritiera e umana.
I libri di storia non ne parlano o lo accennano appena, ma le donne c’erano eccome lì, sul campo di battaglia, sotto il fuoco nemico.
Siamo stati educati in questo modo: abbiamo imparato che dal nostro impegno dipendevano le sorti del paese. E ci hanno insegnato ad amarlo, questo nostro paese. Con entusiasmo, a esserne fieri. E adesso che eravamo in guerra eravamo tenute anche noi a dare il nostro contributo.
La guerra descritta dalle donne fa più paura di quella degli uomini, è più sentimentale, non racconta dei soldati ma degli uomini; non è fatta di gesti eclatanti, di azioni belliche, di medaglie al valore (che pure ci sono state) ma di piccoli e apparentemente inutili dettagli che rendono l’idea dell’essere umano, prima che del combattente; parla col cuore in mano della paura di morire, dei momenti di sconforto, delle condizioni igieniche inappropriate.
Le donne in guerra hanno vissuto due vite: la stessa degli uomini, in prima linea, su un aereo lanciamissili, nelle infermerie, nelle lavanderie da campo, e come loro hanno perso compagne di lavoro e amiche, hanno visto corpi mutilati, hanno sotterrato cadaveri. Ma allo stesso tempo hanno conservato la voglia di essere femminili, di sentirsi belle; hanno sognato di indossare vestitini estivi, di truccarsi, di acconciarsi i capelli; hanno cercato di abbellire la divisa, hanno conservato un paio di scarpe col tacco nascosto in fondo alla sacca; hanno fatto richiesta di biancheria intima per sostituire i mutandoni da uomo che veniva fornito (biancheria e divise immacolate verranno consegnate solo al momento della vittoria per le parate).
Le donne sanno raccontare l’amore. Innamorarsi sotto le bombe è possibile, quasi come fosse un antidoto all’orrore.
È un mondo civettuolo il loro? È una versione troppo svenevole e meno eroica forse? Sta di fatto che per anni La guerra non ha un volto di donna è stato censurato perché non rimandava un’immagine appropriata al ruolo istituzionale delle donne al fronte.
Come già in Preghiera per Černobyl’ la giornalista (insignita del Premio Nobel per la Letteratura nel 2015) scompare lasciando parlare le sue interlocutrici, le ascolta senza interromperle. E noi lettori, con lei, ascoltiamo questo flusso di ricordi che scorre sulla pagina.
È con curiosità e forse un po’ con senso del dovere che ho iniziato questo libro, e l’ho chiuso con un sentimento di commozione misto al rispetto che si deve a chi ha lottato per i propri ideali.