Ha tredici anni Liliana quando insieme al padre viene arrestata e deportata nei campi di concentramento. Lui non si salverà, lei oggi è una dei pochi testimoni ancora in vita che ha il compito di tenere viva la memoria di quell’orrore.
“Il 5 settembre 1938 ho smesso di essere una bambina come le altre”: inizia così questo lungo racconto di Liliana Segre (portato su carta dal giornalista Enrico Mentana) sulla sua esperienza da deportata ebrea: l’approvazione delle Leggi razziali, il tentativo di fuga in Svizzera, la cattura, la detenzione e la lunga marcia della morte durata un anno e mezzo. Ne La memoria rende liberi. La vita interrotta di una bambina nella Shoah c’è semplicemente lei, la Liliana adulta, che guarda al passato e descrive se stressa bambina spaventata, sola, pelle e ossa ma con una fame di vita che le consente di sopravvivere a tutto.
E poi il dopo: il ritorno alla vita, con le enormi difficoltà del rientro in società, di tornare umana dopo essere stata trattata come una bestia. Quindi l’incontro con il marito Alfredo e l’esperienza di diventare madre.
Se non sono diventata matta, se non sono diventata una di quelle barbone che vagano per strada cariche di borse, è perché ho ricevuto tutto questo amore. Se non avessi avuto amore nella mia vita, sarei finita molto male. Ho sempre sentito in me il richiamo dell’abisso e per tanto tempo ho camminato sull’orlo del precipizio.
Il suo non è il racconto universale del popolo ebreo, ma quello di un singolo, di “una formica in un formicaio, ma senza neanche una briciola di pane da trasportare”. Sono i suoi ricordi, le sue impressioni, i suoi pensieri.
La parte del poliziotto cattivo la fa Enrico Mentana nel capitolo introduttivo. È a lui che spetta puntare il dito apertamente sugli “italiani brava gente” che hanno permesso che l’orrore avesse inizio. È lui che spiega i fatti, dà qualche riferimento storico; lui che fa un’analisi dei perché.
Un’autobiografia toccante, per nulla caricata fintamente di pathos, lineare e vera.