Una mattina come tante, nella cittadina di Orano si verifica un’improvvisa moria di topi, segno che qualcosa di brutto sta accadendo. Nel giro di poche ore sono decine, poi centinaia, poi migliaia i casi di peste che decimano la popolazione.
Siamo nel 1947 – si è solo iniziato a contare i danni lasciati dalla Seconda guerra mondiale – quando lo scrittore Albert Camus, già noto per il romanzo Lo straniero, pubblica La peste, un’allegoria del periodo storico appena trascorso che ha cambiato l’assetto socio-politico e culturale del mondo intero.
Nelle intenzioni dell’autore la peste, il male che devasta la città, simboleggia il nazismo, il male assoluto che dilaga, che può essere debellato ma che potrebbe tornare.
Io so di scienza certa che ciascuno la porta in sé, la peste, e che nessuno, no, nessuno al mondo ne è immune. E che bisogna sorvegliarsi senza tregua per non essere spinti, in un minuto di distrazione, a respirare sulla faccia d’un altro e a trasmettere il contagio. Il microbo, è cosa naturale. Il resto, la salute, l’integrità, la purezza, se lei vuole, sono un effetto della volontà e d’una volontà che non si deve mai fermare. L’uomo onesto, colui che non infetta quasi nessuno, è colui che ha distrazioni il meno possibile.
Ed è proprio in un momento così delicato per l’umanità che il male assoluto tira fuori il meglio e il peggio delle persone: così chi per natura è portato a fare del male perpetrerà la sua scelta arrivando alle azioni più turpi ed esecrabili ai danni dei più deboli; viceversa, chi dedica la sua vita per il bene comune, anche nel momento di maggior caos e devastazione, cercherà fino allo stremo di portare aiuto a chi ne ha bisogno.
Il dottor Bernard Rieux, uomo-simbolo dei tanti partigiani della resistenza, è uno di questi piccoli grandi eroi che rischia il contagio pur di mantenere fede alla sua natura di uomo e di medico, anche se la sua anima ne uscirà in qualche modo annientata. Ci si stanca della pietà, quando la pietà è inutile.
Ma è nelle battute finali che si trova la morale di questa storia, un monito all’umanità a stare in guardia perché c’è la possibilità tutt’altro che remota che si possa ripresentare il morbo maligno che divamperà in un’epidemia mortale che devasterà la terra.
Lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, per sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice.
Dopo aver letto Lo straniero, che seppur datato è da considerarsi moderno sia per la trama che per il lessico, approcciando La peste mi aspettavo un romanzo diverso, vecchio stile senz’altro, ma di più facile lettura. In queste pagine invece la narrazione zoppica un po’, in alcune parti procede lentamente e in altre è piuttosto contorto. Insomma manca di quel quid che lo avrebbe reso un capolavoro trasversale, adatto a tutti e attuale in ogni epoca (forse colpa anche di una traduzione un po’ antiquata). Certo è che in questo periodo incerto per tutti noi è facile trovare in queste pagine un avvertimento sui pericoli che una condotta immorale può portare all’intera umanità. Profetico!