Josef Mengele, il medico di Auschwitz, riesce a scampare alla cattura e al processo di Norimberga, potendo contare su una schiera di alleati che nascondono le sue tracce. Da Genova a Buenos Aires, dal Paraguay al Brasile: una fuga, la sua, lunga una vita.
La scomparsa di Josef Mengele, vincitore nel 2017 del Prix Renaudot, è un romanzo di Olivier Guez che scava nella memoria storica e riscrive gli anni della fuga dell’angelo della morte, l’uomo che ha fatto dei prigionieri zingari ed ebrei il suo personale laboratorio dell’orrore.
La pietà è una debolezza: con un cenno del frustino l’onnipotente sanciva la sorte delle sue vittime, a sinistra la morte immediata, le camere a gas, a destra la morte lenta, i lavori forzati o il suo laboratorio, il più grande del mondo, che ogni giorno all’arrivo dei convogli riforniva di «materiale umano adeguato» (nani, giganti, storpi, gemelli). Iniettare, misurare, salassare; sezionare, assassinare, eseguire l’autopsia: a sua disposizione, uno zoo di bambini cavie…
Alla fine degli anni Quaranta Buenos Aires è il “Quarto Reich fantasma”, l’alcova di esiliati, criminali di guerra, nazisti e fascisti, falangisti spagnoli, nazionalisti serbi e croati: insomma, la feccia d’Europa sbarca nel paradiso sudamericano.
La vita di Mengele in Argentina offre l’opportunità di parlare di un’altra figura di spicco dell’epoca, Juan Perón, il protettore di questa banda di criminali, che insegue il sogno di far diventare il suo Paese una superpotenza mentre Stati Uniti e Unione Sovietica se le danno di santa ragione a suon di bombe atomiche e minacce di guerra.
È affascinante anche la ricostruzione dell’incontro del nostro protagonista con Adolf Eichmann: i due si detestano, si evitano pur frequentando gli stessi ambienti. Mentre Mengele preferisce restare nell’ombra, Eichmann parla apertamente della grande madre patria e dell’imponente progetto di epurazione degli ebrei, vantandosi perfino delle sei milioni di vittime sterminate nei campi di concentramento. Poi il rapimento di Eichmann per mano dei servizi segreti israeliani accende la paura in Mengele, che a quel punto non è più al sicuro in Argentina.
Si rifugia in Paraguay dove spera di rifarsi una vita con la nuova moglie Martha e il figlio di lei Karl-Heinz, ma la tranquillità dura poco. La caccia all’uomo è ricominciata e lui sa di essere braccato, motivo per cui brucia gli appunti e i campioni che si è portato dietro da Auschwitz – il frutto del suo macabro lavoro va in fumo in pochi istanti. Quindi, questa volta da solo, scappa in Brasile.
Mengele sa che non si fugge da una prigione a cielo aperto. Si chiede se non dovrebbe porre fine ai suoi giorni invece di infliggersi la vacuità e la tortura dell’esilio, quel gioco dell’oca che è condannato a perdere, a tal punto i suoi alleati lo tradiscono e i suoi nemici proliferano.
I venticinque anni successivi sono anni di solitudine, di paura che lo fa sentire come un animale in gabbia, anche se mantiene il suo vigore, la voglia di vendetta e il disprezzo per una patria che si è rammollita e l’ha tradito.
L’unico slancio di affetto puro è quello per il figlio Rolf che ha incontrato una sola volta nella vita e che insiste per rivedere. Il loro incontro è la resa dei conti e Mengele appare per il mostro che è.
Quello di Olivier Guez è un romanzo, e come tale va considerato: per quanto basato sulle più autorevoli fonti storiche e sulle sue ricerche nei luoghi in cui il medico tedesco ha vissuto, ci sono e resteranno sempre delle zone d’ombra su cui è pressoché impossibile fare luce.
Detto questo, il libro si legge con vivo interesse, fornendo importanti spunti per chi voglia approfondire gli ultimi anni di uno degli uomini simbolo della guerra. E il fatto che abbia uno stile tra il saggio e il romanzo d’avventura impreziosisce ancor più una lettura che è l’ennesimo atto dovuto a chi ha scritto con il suo sangue quel pezzo di storia.