Il famoso pianista ungherese Z. è diretto a Firenze per tenere l’ennesimo concerto. Ma già durante il viaggio in treno sente che qualcosa in lui sta cambiando e poche ore dopo cade vittima di una malattia che lo terrà per mesi relegato in un letto d’ospedale a lottare tra la vita e la morte. A prendersi cura di lui due eminenti dottori e quattro suore – o “sorelle” – da cui trarrà la forza vitale per rimettersi in piedi, anche se profondamente cambiato.
La sorella è un romanzo molto particolare, diverso da quelli a cui Márai ci ha abituati, dove non vengono trattati propriamente i tumulti del cuore ma piuttosto le conseguenze che essi provocano sul corpo umano.
E in effetti l’inizio è del tutto fuorviante: alcune persone restano bloccate dalla neve in un rifugio di montagna e tra loro una coppia di innamorati – che poi si scoprirà trattarsi di due amanti – si tolgono la vita. Ecco, diciamo che ci si aspetta di leggere un altro mirabile esempio di romanzo intimista, sull’amore coniugale o sull’amore fedifrago. Ma già al capitolo successivo si capisce che il nucleo centrale della vicenda andrà per altre vie e che quegli sfortunati amanti sono stati inutilmente sacrificati da Márai e che non faranno parte della storia vera e propria.
Dall’espediente di quel suicidio passionale si passa al triangolo amoroso in cui si ritrova avvinghiato il protagonista, il signor Z., le cui vicende sentimentali diventano una delle cause scatenanti da cui prende avvio la sua malattia. Il deperimento fisico non è perciò che la naturale conseguenza di un’insana passione.
La vita diventa un veleno se non crediamo ad essa, quando non è che un mezzo per saziare la vanità, l’ambizione, l’invidia. E si comincia ad avere nausea.
In queste pagine, il connubio dolore-amore viene spesso utilizzato da Márai per spiegare i sintomi, le sensazioni, le attese di un uomo provato tanto nel fisico quanto nello spirito.
Ormai percepivo il dolore nel mio corpo al modo di una madre percepisce il figlio che porta in grembo: non lo sentivo come una ferita o un tumore, era qualcosa di diverso dall’effetto di una lesione o di un urto. Era una specie di essere dotato di coscienza. E questo essere viveva di vita propria all’interno della mia vita. E ha anche un suo senso, pensavo, benché piuttosto contorto. Sicuramente è dotato di volontà; e poi fa i capricci; a volte è ingegnoso e sorprendente, altre volte è fiacco e apatico. È sempre infido, crudele e impassibile, ma qualche volta gioca allo stesso modo di una belva con la sua vittima, o di un aguzzino cinese con il condannato che gli hanno affidato perché ne faccia quel che più gli aggrada.
Solo un prosatore come Márai può parlare del dolore fisico per quasi cento pagine, ma mentirei se dicessi che lo fa senza stancare mai. A dire il vero, un po’ prolisso lo è stato, in effetti, ma non al punto di far desistere dal finire la lettura. Tanto più che una certa curiosità si fa crescente man mano che ci si spinge verso la fine per sapere dove vuole andare a parare nel rapporto tra il paziente e le suore – le sorelle – dell’ospedale. Quale tra loro gli ha infuso la forza di vivere?
La sorella è comunque un libro che dà alcuni spunti davvero interessanti su cui riflettere, in primis la distinzione tra “terapia” che è appannaggio della scienza e “guarigione”. E per quest’ultima non bastano i medici, non bastano le medicine, ma è essenziale che una forza vitale parta da dentro, che sia il malato stesso a trovare la strada verso la salvezza. Pregevole il messaggio, ma con qualche taglio qua e là sarebbe ugualmente arrivato forte e chiaro!