Il 9 gennaio 1993 Jean-Claude Romand uccide la moglie e i figli, quindi va a trovare i genitori e uccide anche loro. Dopo l’iniziale tentativo di far ricadere la colpa su un intruso, confessa tutto: che non si è mai laureato in Medicina, che non è un ricercatore all’OMS e che non ha investito i soldi dei parenti per farli fruttare, ma li ha spesi per vivere.
L’assassino è un romanzo-verità, una non-ficion che attinge alla cronaca nera, raccontata con un taglio a metà tra giornalismo e giallo. E il lettore, pur sapendo che si trova di fronte a fatti realmente accaduti, durante tutta la lettura spera che qualcosa possa frenare il lento svolgersi degli eventi. L’incipit è un vero pugno allo stomaco e in poche battute – fulminee direi – la tragedia è annunciata come conclusa, bisogna solo capire come si è arrivati a tanto.
Romand è il fantasma di se stesso: la sua vita è tutta una menzogna, fatta di sotterfugi, di giornate vuote da riempire quando tutti pensano che sia a lavoro o in viaggio per qualche congresso di medicina.
Una vita potenzialmente perfetta, ma finta. L’unica cosa reale è l’amore per la moglie e i figli e la relazione extraconiugale con Corinne che segna l’inizio della fine, la lenta discesa verso il suo inferno personale. E, per quanto assurdo possa sembrare, è proprio per proteggere i suoi affetti che decide di ucciderli: proteggerli dalla verità, proteggerli dalla vergogna, dalla disillusione e dall’inevitabile disprezzo che scaturirebbe dal conoscere la vera natura di Jean-Claude e dal comprendere che la loro intera realtà è marcia.
Sapeva fin dall’inizio che la conclusione logica della sua storia era il suicidio. Aveva pensato spesso di uccidersi, senza mai trovare il coraggio, e in un certo senso la certezza che prima o poi l’avrebbe fatto rendeva il coraggio superfluo. Aveva passato la vita ad aspettare il giorno in cui quel gesto sarebbe diventato improrogabile. C’era andato vicino cento volte e cento volte un miracolo, o il caso, l’avevano salvato. Senza illudersi sull’esito finale, era curioso di sapere fino a quando il destino gli avrebbe concesso un rinvio.
Una tragedia familiare che forse poteva essere evitata, ma per trascuratezza o distrazione delle persone coinvolte e delle vittime stesse è stata l’epilogo di una storia pirandelliana. Un caso che ha dell’incredibile, difficile immaginarlo come semplice materiale di un’opera narrativa, figuriamoci come reale accadimento.
Nelle ultime pagine il ritmo si fa più serrato, scandendo gli accadimenti giorno dopo giorno, ed è a questo punto che appare evidente (contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa in sede di giudizio) la premeditazione del crimine.
Quella proposta da Carrère degli ultimi giorni prima della carneficina è una ricostruzione dei fatti gelida, asettica, come se dovesse scrivere un articolo di cronaca su un qualsiasi quotidiano. Eppure è proprio lì che il lettore sentirà la tensione crescere perché avvertirà l’avvicinarsi della tragedia come se fosse cadenzato dai rintocchi di un campanile… fino al gong finale!
Impossibile pensare a questa storia senza immaginare che sotto ci sia un mistero, una spiegazione nascosta. Il mistero, però, è che non esistono spiegazioni, e che per quanto inverosimile possa sembrare, questo è ciò che è accaduto.