La dolce Yayoi, esasperata dal comportamento del marito, in preda a un attacco d’ira lo uccide strangolandolo con la cintura dei pantaloni. Per nascondere il corpo chiede aiuto a Masako, sua compagna di lavoro, che a sua volta coinvolgerà altre due amiche. Da quel momento la vita delle quattro protagoniste non sarà più la stessa.
Le quattro casalinghe di Tokyo di Natsuo Kirino è la storia di quattro donne costrette a lavorare di notte per racimolare qualche spicciolo per mandare avanti la baracca; quattro donne sentimentalmente insoddisfatte, alle prese con le difficoltà quotidiane di una qualsiasi famiglia moderna (orientale e occidentale, senza distinzioni).
Le loro sono vite piatte, monotone, chiuse nella routine di chi lavora e si deve occupare anche della casa e dei figli. Tutto molto lineare, secondo i canoni della frenesia che la realtà moderna impone.
Ma la loro vita grigia si tinge inaspettatamente di rosso: il rosso del sangue di Kenji, il marito violento, fedifrago e giocatore d’azzardo della bella Yayoi. È lei infatti a trascinare (direttamente o indirettamente) le tre colleghe di lavoro nel suo personale dramma familiare.
I capitoli si susseguono andando a inquadrare ora Yayoi, ora Yoshie, ora Kuniko, ma soprattutto la coraggiosa Masako. È lei la mente pensante del gruppo, è lei che prende in mano la situazione e con sangue freddo (e qualche non molto velato ricatto) istruisce le altre sul da farsi, ed è lei che alla fine domina indiscussa la scena.
Per la prima volta dopo l’assassinio di Kenji, Masako si era resa conto che era entrato in gioco un altro avversario, uno sconosciuto. E non si trattava della polizia, era un nemico misterioso, che non voleva uscire allo scoperto.
L’inattesa sferzata che la loro vita prende le porterà a scontrarsi con brutti ceffi di incalcolabile cattiveria a cui hanno, seppur involontariamente, pestato i piedi.
Non ne escono benissimo i giapponesi da questo romanzo: tra personaggi loschi e pericolosi, usurai arrivisti e ricattatori, mariti inconsistenti e figli egoisti, resta poco spazio per qualche comparsata dei buoni sentimenti.
Grazie al continuo cambio di prospettiva, l’autrice ha la possibilità di scavare nel profondo dell’animo di ciascun personaggio principale, mettendo in luce i diversi aspetti dell’animo umano: il rancore, l’invidia, il rimorso, l’avidità, la vendetta, la solitudine e il desiderio di riscatto.
L’atto finale, con l’incontro tra la vittima e il carnefice, è formalmente diviso in due capitoli, espediente che fa salire la suspense alle stelle. Anche in questo caso, la scelta di descrivere gli accadimenti da due opposti punti di vista consente di cogliere la diversità dei caratteri e vorrebbe motivare l’impensabile cambiamento di prospettiva. E dico “vorrebbe” perché onestamente non mi è stato chiaro il motivo di un così repentino cambio di rotta. Non aggiungo altro per non rovinare la sorpresa a quanti devono ancora leggerlo, ma non sono affatto rimasta soddisfatta del finale che ho trovato stiracchiato e per nulla in linea con il resto del romanzo!