Erik è l’ipnotista più famoso di Svezia ma da 10 anni non pratica l’ipnosi perché qualcosa nel suo gruppo di ricerca è andato storto. Quando però viene chiamato ad aiutare la polizia che indaga su una famiglia massacrata, Erik viene meno alla sua promessa e fa cadere in stato di trance il giovane Josef, il figlio sopravvissuto ma in stato di choc. La sparizione di suo figlio Benjamin avrà a che fare con il suo ritorno alla professione? E soprattutto, come farà a riportarlo a casa?
Più che mai in questo caso la mia è una voce fuori dal coro. Il mio librario di fiducia mi aveva detto che non esiste un thriller più riuscito de L’ipnotista di Lars Kepler, poi in rete ho trovato una valanga di commenti entusiastici. Così ho iniziato la lettura con l’acquolina in bocca… e l’ho conclusa (a fatica) con un amaro sapore di promesse infrante!
Intanto la sinossi presentata in banda ti porta a concentrare l’attenzione sulla vicenda del massacro della famiglia, ma a pagina 100 succede tutt’altro e quella storia viene praticamente messa nel dimenticatoio (salvo per qualche riferimento qua e là). Verrebbe da dire “Ok, ci può stare” se non fosse che l’altra vicenda – la scomparsa di Benjamin – è ancor meno interessante e infinitamente più sconclusionata!
Nessuno di loro era davvero consapevole di quello che era successo, sapevano solo che il passato aveva distrutto le loro vite. Perché il passato non è morto e sepolto, in realtà non è neppure passato, per dirla come Faulkner. Ogni piccolo accadimento del passato condiziona il soggetto anche nel presente. Ogni esperienza pregressa influenza in qualche modo le scelte di ciascuno – e nel caso di esperienza traumatiche, il passato fagocita il presente.
Secondo punto: in un thriller ben orchestrato tutto, ogni minimo particolare, dovrebbe essere finalizzato a portare il lettore da qualche parte. Qui questo non succede: infinite e minuziose descrizioni dei luoghi sono lungaggini inutili, dato che in nessuno di essi viene poi ritrovata la minima traccia per risolvere l’enigma. Si entra in una casa, poi in un’altra, poi in un’altra ancora, quindi in una galleria d’arte, nell’ennesimo appartamento, poi in ospedale, in una sala riunioni, in uno studio medico e in un manicomio. Certo, a Lars Kepler non manca la vena descrittiva ma qui siamo al limite del paradosso!
Terzo punto: chi è che deve risolvere il caso? Dalla banda (testuale): “Joona Linna, un commissario della polizia criminale con l’accento finlandese” (adesso vi sembrerà che voglio fargli le pulci, ma è poi così importante sapere che accento abbia? Ma sorvoliamo). Più vai avanti e più ti rendi conto che questo commissario va avanti per intuizioni (spesso pure sbagliate). Smuove mari e monti per farsi affidare il caso e poi non è lui a scovare neanche una prova, non è lui a risolvere il caso – anzi, a dire il vero, nessuno dei due casi. E come potrebbe dato che nessuno lo interpella quando salta fuori qualcosa di utile (o presunto tale)? Ci deve essere un’epidemia acuta di amnesia tra i personaggi di Kepler: questo libro è costellato di “dimenticavo di dirti” e “devo avvertire il commissario” e poi il fatidico incontro avviene 100 pagine dopo. Ma pare che quando ti rapiscono un figlio – malato per giunta, tanto per non farsi mancare niente – la priorità sia andare a sfogare gli istinti sessuali col primo che passa. Ah, non l’avevo ancora detto. C’è anche tanto sesso e tradimento (e l’ennesimo presunto tale) in questo romanzo.
Beh, nel caso non si fosse capito, questo libro non mi è piaciuto, anzi posso dire senza giri di parole che non mi sono mai annoiata tanto. Un polpettone di 585 pagine che non porta da nessuna parte. Peccato, le prime 50 le ho trovate davvero promettenti!