Nato a Dickens – ghetto nella periferia di Los Angeles – il protagonista è rassegnato al destino del californiano della classe medio-bassa. Cresciuto da un padre single, controverso sociologo, ha passato l’infanzia fungendo da soggetto per una serie di studi psicologici sulla razza. Gli è sempre stato fatto credere che il lavoro pionieristico del padre sarebbe stato accorpato in un memoir che avrebbe risolto i problemi economici della famiglia. Ma quando il padre viene ucciso dalla polizia in una sparatoria, si rende conto che non esiste nessun memoir: l’unico lascito del genitore è il conto del funerale low cost. Fomentato da quest’imbroglio e dallo sfacelo generale della sua città, il protagonista si dà da fare per riparare a un altro torto subito: Dickens è stata letteralmente cancellata dalle carte geografiche per risparmiare ulteriore imbarazzo alla California. Dopo aver arruolato il più famoso residente della città – Hominy Jenkins, celebrità caduta in disgrazia –, dà inizio alla più oltraggiosa delle azioni concepibili: ripristinare la schiavitù e la segregazione nella scuola locale…
So che detto da un nero è difficile da credere, ma non ho mai rubato niente.
Questo è l’incipit di uno dei romanzi più caustici, feroci ed irriverenti che mi sia mai capitato di leggere.
Vincitore del Man Booker Prize 2016, Lo schiavista rappresenta – prima di tutto – una satira pungente e provocatoria della società americana contemporanea. Sostenuto da una scrittura audace ed al tempo stesso brillante, Paul Beatty ci regala un libro memorabile: le pagine che scorrono davanti ai nostri occhi, dense e piene di inventiva, riescono a centrare in pieno il bersaglio, elevando quest’opera una spanna al di sopra degli altri tentativi di critica sociale.
Il protagonista – soprannominato Bonbon – è un personaggio davvero ben costruito. Originale ed antisistema, si butta anima e corpo in un’impresa titanica: riportare in vita la propria cittadina di origine – Dickens – cancellata dalle cartine a causa delle speculazioni edilizie e dell’esplosione demografica del ventesimo secolo.
Con l’aiuto della vernice bianca, di qualche cartello messo al posto giusto e di altri astuti stratagemmi, comincia a ridisegnare i confini dell’originaria identità, ormai scomparsa nel nulla. Partendo dalla segregazione della scuola e dei trasporti pubblici, riesce a dimostrare l’inefficacia di leggi troppo lontane dal sentire comune, ottenendo immediati benefici per l’intera comunità. Allo stesso tempo, diventa – quasi inconsapevolmente – l’artefice della reintroduzione della schiavitù: il vecchio caratterista in disarmo Hominy Wilkins gli si appiccica addosso come una patella allo scoglio, trasformandosi in suo personalissimo servo (con esiti talvolta esilaranti).
Non conoscevo Paul Beatty, prima di questo romanzo. Sono felice di aver scoperto un nuovo scrittore ricco di talento ed inventiva. Con quest’opera – che rimarrà sicuramente nella memoria – riesce a deviare il baricentro un po’ troppo standardizzato e “di maniera” della satira politicamente scorretta, raggiungendo territori del tutto inesplorati. La risata, come capita solamente con i grandi umoristi, non rimane mai fine a se stessa: rappresenta una sorta di scatola magica che, se scoperchiata a dovere, sa mostrare agli spettatori un notevole contenuto in termini di analisi sociale, di idee ed immaginazione.
Giudizio: da leggere assolutamente.