Astolfo Malinverno, a causa della sua zoppia, ha sempre vissuto un po’ ai margini, chiuso nella biblioteca del paese di cui è il responsabile. Ma quando diventa guardiano del cimitero part-time, si affeziona all’immagine di una donna su una lapide senza nome e senza date: da quel momento, lei sarà la sua Emma Bovary di cui cercherà di svelare il mistero e la sua vita si farà molto più ingarbugliata.
Con il suo Malinverno Domenico Dara porta il lettore in un mondo magico, dove i confini tra reale e fantasia si mescolano grazie alla sensibilità di un uomo che, come il suo omonimo, vive con un piede sulla terra ma con la testa altrove.
A Timpamara, un paese dove si inceneriscono vecchi libri, quale miglior inno alla letteratura se non la bizzarra abitudine di dare agli ultimi nati il nome dei protagonisti delle pagine sfuggite alle fiamme, grazie a improvvise folate di vento: così tra Mopassàn, Marcaurelio, Fiammetta, Volfango, i fratelli Gargantuà e Pantagruèl, Valchiria, Armida e Desdemona, non può mancare un Astolfo.
Il protagonista è un moderno Mattia Pascal, la cui vita è un paradosso fin dalla nascita: è, infatti, l’unico uomo che può vedere ancora vivo la sua foto su una lapide. Astolfo adora i finali tragici e riscrive gli epiloghi di Pinocchio, di Moby Dick, di Cyrano, di Don Chisciotte e Sancho Panza con tanto di necrologio pubblicato sul giornale.
Anche la sua vita, in effetti, sembra uscita da un romanzo di avventura: non ci mette molto, una volta preso l’incarico di guardiano di cimitero, ad innamorarsi perdutamente di una foto, di cui è geloso e che cura con un interesse maniacale.
Se ne vedono di scene strambe in queste pagine, scene che fanno commuovere e riflettere: il funerale della gamba del signor Brognaturo; il signor Elea che attende la morte di fronte alla propria tomba rimasta accidentalmente e improvvisamente vuota; l’uomo che chiede di essere seppellito vicino al cane che gli è stato fedele per più di venti anni; il cane Kachanka che accompagna i feretri come un traghettatore delle anime a quattro zampe; o ancora la giovane Margherita che chiede di essere unita in matrimonio al suo promesso sposo, tragicamente morto.
E a queste situazioni anomale, Astolfo reagisce con una buona dose di umana sensibilità e compassione, assecondando le richieste più bizzarre e mettendo mano al regolamento per la custodia del cimitero che quindi si arricchisce di nuove e stravaganti postille per venire incontro alle esigenze dei vivi.
Se fino ad allora, e alla luce dell’educazione materna, avevo pensato alla biblioteca come il coronamento di una vocazione e avevo vissuto la mansione al cimitero con dubbi e riserve, presto mi accorsi che anche il nuovo incarico sembrava l’esito di un percorso coerente, quasi una predisposizione. L’idea di essere come destinato a quel doppio lavoro ebbe come immediata ripercussione se non la consapevolezza, almeno il vagheggiamento di essere anche io un elemento previsto dalle leggi di natura, di essere stato considerato e calcolato, perché in fondo è questo che cerchiamo noi uomini: il posto giusto nello scacchiere universale.
Astolfo diventa colui che si prende cura dei morti tanto quanto delle anime di chi rimane. E da che la sua vita era stata abitudinaria e semplice, due misteri la stravolgono all’improvviso: la comparsa di una donna tale e quale a quella della foto sulla tomba, la sua Emma, e l’arrivo in città di un misterioso forestiero che si aggira per il cimitero registrando le voci dei morti.
Malinverno è un libro da gustare fino alla fine, che strappa più di qualche sorriso ma anche qualche lacrima di commozione.