Martin Eden è un giovane marinaio dalla pelle abbronzata e dalle mani callose che, dopo aver salvato un giovane ricco da una scazzottata, viene presentato alla famiglia di lui. Il colpo di fulmine per la sorella Ruth è immediato: il suo parlare forbito e i suoi modi raffinati lo stregano e gli fanno desiderare ardentemente di essere migliore agli occhi di lei.
Pubblicato nel 1909 da un giovanissimo Jack London, Martin Eden può considerarsi il romanzo di formazione per eccellenza, poiché il protagonista è il prototipo stesso dell’eroe che compie il suo personale percorso di crescita. E che crescita! L’incontro con Ruth, la bella e ricca sorella dell’amico Arthur, segna per lui l’inizio di un processo di cambiamento dalle conseguenze inaspettate: non solo conosce i moti del cuore, i più puri, i più tumultuosi, ma inizia a percepire la sua limitatezza come uomo. All’improvviso vede se stesso, la sua famiglia e la classe operaia da cui proviene come la parte più bassa, più rozza, più ignorante della società. E una volta aperti gli occhi, è impossibile ricacciare indietro quelle sensazioni e per lui si fa primaria la necessità di elevarsi. Per se stesso e per la sua amata.
Dimenticò se stesso e la fissò con occhi famelici. Ecco qualcosa per cui vivere, qualcosa da conquistare, qualcosa per cui battersi… sì, e per cui morire. I libri dicevano il vero. C’erano, certe donne, al mondo.
Da autodidatta, Martin legge di tutto, studia di tutto e scrive a perdifiato, ma la consapevolezza delle sue qualità di scrittore si scontra con la diffidenza di chi lo circonda. Nessuno crede in lui, nemmeno le sue sorelle, nemmeno Ruth. Ci metterà tre anni a raggiungere il suo scopo, troppi.
Quando le porte del successo si spalancano, Martin Eden è un uomo finito: non desidera più l’approvazione della borghesia – quella borghesia che lo ha rifiutato quando era un incolto e rozzo marinaio e che lo cerca ora che si è fatto un nome – ma non appartiene neanche più al suo mondo d’origine.
Era deluso di tutto. Si era trasformato in un estraneo. Come la birra aveva avuto un sapore aspro, così i suoi compagni gli sembravano rozzi. Era troppo distante. Troppe migliaia di libri aperti avevano spalancato un baratro tra lui e loro. Si era esiliato. Aveva viaggiato nell’immenso reame dell’intelletto e ora non poteva più tornare in patria.
È in un limbo. Ha osato sfidare il fato, ha cercato di domare la vita, ma deve soccombere all’inutilità di quel gran lavorio che ha fatto su se stesso.
Se non è proprio un alter-ego dell’autore, il personaggio di Martin Eden ha moltissimi punti in comune con Jack London stesso: le persone che incontra sono quelle incontrate dallo scrittore; le delusioni sono le stesse; anche la fine – si può dire profetica nel romanzo – li accomuna.
Come il suo protagonista, London sente fortemente il bisogno di descrivere la realtà così com’è, senza filtri e senza abbellimenti, ed è proprio questa schiettezza, questa veridicità che giunge prorompente al lettore. Arriva forte e chiara la denuncia di una borghesia ipocrita e arrivista ma allo stesso modo non sfugge la generosità di chi, pur non avendo niente, fa dei sacrifici per aiutare chi sta peggio. Insomma, un bellissimo affresco della società dei primi del Novecento… e non solo. Imperdibile!