Immobilizzata in un letto di ospedale, al suo risveglio Lucy trova sua madre vicino al letto. Per cinque giorni, madre e figlia cercano di recuperare un rapporto inesistente già da molti anni.
Mi chiamo Lucy Barton dell’autrice Elizabeth Strout è la storia di una madre e una figlia che non si incontrano da anni, che non si sono mai capite né si sono dimostrate affetto con gesti plateali. Ebbene, dopo così tanto tempo e così tanto non detto che aleggia tra loro, queste due donne si ritrovano una vicina all’altra e non fanno che parlare di altro. Per l’esattezza è la madre che racconta aneddoti su una serie di conoscenti e sulle loro vicende matrimoniali. Perché poi debbano parlare di matrimoni non l’ho capito, dal momento che sono state proprio le nozze di Lucy ad allontanare in modo drastico questa figlia dalla sua famiglia d’origine.
Il libro è tutto giocato su un rapporto conflittuale tra le due donne e sugli infiniti non detti che hanno compromesso il loro legame. Ma bastano un gesto, un nomignolo detto con tenerezza, una parola appena sussurrata a far capire a entrambe che il sentimento non si è mai spento.
Ecco, e qui arriva la mia prima critica: io quel riserbo di una madre al capezzale della figlia malata non l’ho proprio digerito. È vero che la protagonista non può vantare un’infanzia allegra e spensierata ma non ho trovato elementi che giustifichino un atteggiamento così ostinatamente brusco.
La spiegazione è tutta in queste righe:
La sua è una storia d’amore e lei lo sa. È la storia di un uomo che si è tormentato ogni giorno della vita per delle cose che aveva fatto in guerra. È la storia di una moglie che è rimasta con lui, perché lo facevano quasi tutte le mogli di quella generazione, e che si presenta nella stanza d’ospedale della figlia e sproloquia nevroticamente dei matrimoni falliti di tutti gli altri, e nemmeno lo sa, nemmeno sa che cosa sta facendo. È la storia di una madre che ama sua figlia. In modo imperfetto. Perché amiamo tutti in modo imperfetto.
Per me questo Mi chiamo Lucy Barton è un libro sconclusionato senza un vero inizio né una vera conclusione, solo una sequenza di ricordi intervallati da un’infinità di silenzi.
Sei lì che vai avanti capitolo dopo capitolo aspettando che succeda qualcosa, ma quel momento (piccolo spoiler!) non arriva mai…
Ma la cosa che più mi ha infastidito è che l’autrice – che pure ci ha abituati a situazioni non facili e temi delicati trattati sempre con molto tatto e senza svenevolezza – in questo romanzo ha snocciolato tutte le situazioni più drammatiche possibili per cercare empatia col lettore: la guerra, il nazismo, l’aids, l’attentato alle Torri Gemelle. Temi, per giunta, non approfondimenti ma appena accennati en passant in capitoli di una brevità esasperante.
A mio avviso, un brutto libro, mal pensato e neanche troppo ben scritto, ma soprattutto noioso (anche il correttore di bozze deve essersi annoiato visto la quantità di refusi che si è lasciato alle spalle). Peccato, perché Olive Kitteridge e Resta con me mi hanno fatto scoprire un’autrice notevole che non ho ritrovato in questo ultimo lavoro.
Elizabeth Strout
Mi chiamo Lucy Barton
Einaudi, 2017
pp. 158