Durante una vacanza alla foce del fiume Tagliamento, Bruno ed Emma saranno costretti a dire addio alla famiglia così come l’hanno sempre concepita. Un attimo di distrazione e tutto cambia. Anni dopo saranno costretti a fare i conti col passato e ad accettare le cose che non possono cambiare.
È ancora una volta una storia di sofferenza quella raccontata da Marco Franzoso in Mi piace camminare sui tetti. Sofferenza inferta proprio da chi dovrebbe proteggere, amare, guidare, sostenere nel bene e nel male.
La voce narrante è quella di Bruno ormai adulto, che non dimentica, non può, il periodo in cui tutto è cambiato e la vita familiare si è trasformata in un inferno fatto di paura, antidepressivi, pipì a letto… e poi la tragedia. Quella vera, che spezza il cuore di un genitore, di un fratello, di una sorella.
E di quella tragedia noi lettori scopriamo i dettagli poco alla volta, e sempre poco alla volta osserviamo inermi le conseguenze che quel fatto avrà sulla vita dei protagonisti.
Ho spiato le vicissitudini di questi due fratelli e ho trovato che, nonostante il dramma di aver perso un fratellino, una madre e un padre – per motivi diversi ma non meno dolorosi – a Bruno ed Emma resta comunque la loro indissolubile unione e l’esempio e la rettitudine di una nonna forte, che non si arrende, che fa di tutto per tenere insieme i cocci di una famiglia allo sbando.
Siamo rimasti soli, ma in fondo lo eravamo sempre stati. Ciascuno nella nostra famiglia a cercare di tamponare, di tappare buchi che nel tempo sono diventati grandi, voragini impossibili da riempire. Lo zio ha detto giusto, ora tocca a noi.
Le tematiche in questo Mi piace camminare sui tetti sono quelle care all’autore de Il bambino indaco: amori imperfetti, vite spezzate da un dolore incommensurabile e, infine, un ritorno alla vita nell’accettazione (o forse con la rassegnazione) di quanto ormai non di può cambiare. Andare avanti nonostante tutto.
Che dire. Il romanzo parte sotto i migliori auspici e la costruzione dei capitoli che alternano passato e presente fa sì che l’attenzione del lettore resti alta. Ma purtroppo ad un certo punto la narrazione perde di mordente, e certi episodi e certi dialoghi sono superflui (per non dire dannosi) ai fini della resa complessiva. A quel punto l’attenzione evidentemente cala (deve essere stato così anche per il correttore di bozze che si è lasciato sfuggire una quantità esagerata di refusi).
Inoltre, pur aleggiando un senso di angoscia per la situazione dei protagonisti, non si arriva al nocciolo della questione e ad un’analisi psicologica approfondita, cosicché il coinvolgimento emotivo del lettore resta fievole.
Il mio giudizio complessivamente non è esaltante, lo ammetto. Credo che Franzoso riesca meglio con i racconti brevi, più taglienti, più incisivi, che arrivano dritti a graffiarti il cuore. La brevità è la sua forza, mentre nel romanzo più articolato tende a strafare perdendo la bussola e andando a cacciarsi in un garbuglio di luoghi comuni.