Il Txato, proprietario di un’impresa di trasporti, viene assassinato da un terrorista dell’ETA per non essersi piegato a pagare il pizzo richiesto per finanziare il movimento. Questo avvenimento segna la rottura tra sua moglie Bittori, costretta a lasciare il suo paese natio, e l’amica di sempre, Miren, madre di un combattente attivista coinvolto nell’attentato.
Da poco uscito nelle librerie italiane, Patria è un romanzo dello scrittore basco Fernando Aramburu che ha spopolato in Spagna e altrettanti consensi sta mietendo nel nostro paese. Il libro è un accorato dramma familiare che si dipana sullo sfondo (e a causa) delle azioni militanti dell’ETA.
È la storia di due famiglie legate da una forte amicizia, insperabili quasi, depositarie l’una dei segreti e delle difficoltà dell’altra. Bittori e Miren, a un passo dal prendere i voti insieme, e i loro mariti Joxian e Txato, sono confidenti, compagni di gioco, complici nelle sventure; i rispettivi figli, Xabier e Joxe Mari e Gorka, quindi le due femmine, Nerea e Arantxa, cresciuti insieme come fratelli e sorelle. Talmente uniti da essere praticamente un unico nucleo familiare.
Questo finché la Storia non si mette in mezzo, e se la Patria chiama il patriota risponde. E allora al diavolo i vincoli di sangue, le amicizie, il dispiacere dei genitori. E se anche il cuore vacilla all’idea del dolore che causerà, la mano è ferma e la mente è salda. La causa è più importante delle remore personali e la lotta armata è l’unico modo che i baschi hanno per far sentire le loro ragioni. Sopra ogni cosa, Euskal Herria. Il fine giustifica i mezzi.
La patria, lungi dall’essere un elemento aggregante, si rivela la causa della rottura: così moglie e marito scoprono di non condividere la stessa ideologia; fratelli e sorelle si allontanano; gli amici di una vita diventano perfetti sconosciuti, se non veri e propri nemici da cui tenersi alla larga per non finire sulla lista nera dei terroristi.
Un libro potente, che sviscera i sentimenti di tutti i partecipanti a questo dramma: in primis le vittime, seguite negli anni delle intimidazioni, con la paura e la vergogna, la rabbia e l’ostinazione di non cedere ai ricatti; ma anche dei carnefici, forti di essere guidati dal fuoco sacro della giustizia, in nome di una ragione superiore, la liberazione e l’indipendenza della propria terra.
Chiedere perdono è difficile. Non sono maturo per fare un passo simile. La verità è che non sono entrato nell’ETA per essere cattivo. Ho difeso delle idee. Il mio problema è che ho amato troppo il mio popolo. Me ne pentirò?
Alla fin fine, queste due famiglie, seppur in modo diverso, sono vittime dello stesso male. La lotta armata ha distrutto le loro vite, infranto i loro sogni, avvelenato il sangue, incrinato irrimediabilmente (o forse no) amicizie fraterne.
Aramburu racconta quasi con distacco, tenendosi al di fuori di qualsiasi giudizio, ma è nel discorso di un ignoto scrittore che partecipa alla Giornata delle Vittime del terrorismo che si può intuire il suo personale pensiero:
Ho scritto anche contro il delitto perpetrato con un pretesto politico, in nome di una patria dove una manciata di persone armate, con il vergognoso sostegno di un settore della società, decide chi appartenga a quella patria e chi debba lasciarla o scomparire. Ho scritto senza odio contro il linguaggio dell’odio e contro la smemoratezza e l’oblio tramati da chi cerca di inventarsi una storia al servizio del proprio progetto e delle proprie convinzioni totalitarie.
Ci sarebbe così tanto da dire di questo romanzo, date la complessità del tema e la vastità interiore dei personaggi. Mi limito a un’ultima annotazione: semplicemente meraviglioso!