Lobbi è un ragazzo appassionato di giardinaggio, che un giorno decide di lasciare l’Islanda per andare ad occuparsi di uno dei più celebri roseti nel Nord Europa trascurato da tempo. Il viaggio lo aiuterà a guardare dentro se stesso e a capire il senso più intimo della paternità.
Comincio a credere che gli scrittori nordici siano portati a comporre quadri piuttosto che romanzi. Le atmosfere da favola di Rosa candida ricordano molto quelle descritte da Henning Mankel, in cui ti aspetti da un momento all’altro di vedere i personaggi parlare con qualche strana creatura del bosco.
La vita non si accende e non si spegne così per caso.
Il romanzo tarda a decollare. La prima parte, a dire il vero, è lenta e a volte anche noiosa. Questo ventiduenne decide di partire alla volta di un monastero sperduto e lascia il padre vedevo, il fratello autistico e una figlia di sei mesi. Ma quello che succede tra la partenza e l’arrivo – l’operazione d’urgenza per appendicite, la degenza in ospedale, poi la convalescenza a casa di un’amica e infine il viaggio in macchina con una perfetta sconosciuta – non è che poi influisca granché sulla storia in sé, né offre chissà quali spunti per caratterizzare il personaggio.
In questo percorso si scopre che Lobbi è un ragazzo padre tormentato dalle pulsioni sessuali (a dire il vero, lecite a ventidue anni) e dall’idea della morte. Niente che comunque non salti fuori anche in seguito. Ecco, se proprio la scrittrice islandese non poteva evitare di togliere l’appendice al suo personaggio, direi che comunque poteva farlo in una ventina di pagine anziché in una sessantina abbondante.
A parte un inizio un po’ stentato, devo ammettere che, nel momento in cui il protagonista mette piede in questo sperduto paesino del Nord Europa, è scattata per me la scintilla. Il romanzo si fa più emozionante e delicato. Non solo per il tema della paternità improvvisa, non voluta, ma alla fine accettata con serenità, ma anche per quello dell’essere figlio. In ogni aspetto della vita di Lobbi aleggia il ricordo della madre morta e il rimpianto per quello che non è stato, per quello che avrebbero potuto fare insieme se…
Tanto di cappello allo stile della Ólafsdóttir: non è artificiosamente smielato, non cerca la lacrima facile, ma riesce a trasmettere quella malinconia, quell’assenza tangibile che forse chi non ha perso la mamma non può capire fino in fondo.
Di solito le cose peggiorano fino a un certo punto, prima di ricominciare a migliorare.
Una nota che ho apprezzato in questo romanzo è che, pur essendo scritto da una donna, esce dagli schemi di una letteratura tipicamente al femminile che tendenzialmente condanna l’uomo per i suoi egoismi, e dipinge come martiri le donne abbandonate (con prole al seguito, per giunta). In Rosa candida non si avverte mai una condanna per la scelta di Lobbi di allontanarsi dalla figlia di sette mesi, anzi semmai è vero il contrario. C’è tanta sensibilità e umanità in questo ragazzo poco più che ventenne che, nel momento in cui è chiamato a prendersi le sue responsabilità, non si tira indietro. Ed è lì che conquista senza riserve il lettore…