Rimasto orfano e affidato alle cure degli zii, Filippo Carey non è disposto a piegarsi alle volontà del suo tutore che lo indirizza verso la carriera ecclesiastica, ma vuole trovare la sua strada da solo. Dopo un soggiorno in Germania e uno in Francia, è costretto a tornare a Londra e a ripiegare sul mestiere di medico, riprendendo gli studi.
Al terzo tentativo, eccomi finalmente a parlare di Schiavo d’amore di Somerset Maugham. Le prime due volte l’ho trovato lento, decisamente datato e l’ho abbandonato (addirittura a pagina trecento). Quando si dice che c’è un momento perfetto per ogni lettura è vero. La clausura forzata e la quantità di tempo libero mi hanno bendisposto a riprovare e sono stata risucchiata nella vita di Filippo Carey, un personaggio alla Madame Bovary, in cui gli entusiasmi si tramutano in scontento e noia, sempre alla ricerca di nuove emozioni. È discontinuo perfino nelle amicizie, stancandosi di quelli della sua cerchia e mirando a raggiungere quelli che si sono realizzati in circostanze diverse. Di lì il desiderio di ripartire, ma ritrovandosi spesso irrevocabilmente solo.
Il protagonista è in realtà lo specchio di Maugham, che vede come mediocre e limitante il provincialismo del paese in cui vive, si fa ammaliare dalla modernità della grande città, dai salotti culturali, dalla vita bohemien degli intellettuali e si trasferisce prima in Germania e poi a Parigi. Come il suo ideatore, anche Filippo insegue il sogno di diventare artista (se Maugham aspirava a diventare scrittore, Filippo vuole diventare un pittore). Ma è sull’aspetto amoroso che l’autore dà il meglio di sé nel tratteggiare la psicologia del suo beniamino.
Il lettore segue le vicissitudini del personaggio, appassionandosi alle sue vicende amorose, provando compassione per le delusioni e anche un filo di rabbia per certi suoi comportamenti remissivi.
Nel raccontare gli spasimi d’amore per Mildred, così lucidamente sprezzanti ma allo stesso tempo irrazionalmente poderosi, l’autore rende appieno le debolezze dell’innamoramento umano. La sofferenza di Filippo è la sofferenza di un uomo che, sapendosi non ricambiato, spera in un mutamento dei sentimenti dell’amata e si presta a umiliazioni indicibili, pur mantenendo sempre una lucidità sul senso stesso dell’amore.
Non sapeva quale fluido passasse in realtà da un uomo a una donna o da una donna ad un uomo per rendere i due esseri schiavi l’uno dell’altro; era comodo chiamarlo istinto sessuale; ma se era soltanto questo, perché doveva esistere una attrazione così irresistibile verso una persona piuttosto che verso un’altra?
Benché siamo nel 1915 quando il romanzo viene pubblicato per la prima volta, lo stile e le tematiche di Schiavo d’amore sono ancora fortemente ottocentesche, ma ricche di spunti di riflessioni più vicini alle filosofie nichiliste del novecento (dalla morte di Dio alla crisi dei valori, in primis il senso stesso dell’esperienza umana sulla terra).
Le brillanti speranze della giovinezza si risolvevano nella più amara delusione. Sofferenze, malattie e infelicità pesavano con gravezza nel piatto della bilancia. Qual era il significato di tutto ciò? […] La vita non aveva alcun significato, l’uomo non aveva alcuna importanza.