Primo Levi, sopravvissuto al centro di sterminio di Mònowitz, racconta in queste pagine la sua personale esperienza, descrivendo gli stenti, il lavoro duro e la morte incombente. Il resoconto crudele e scarno di uomo che ha resistito per quasi un anno ad indicibili sofferenze.
Non starò qui a tessere le lodi di questo romanzo, esaltandone le qualità stilistiche o facendo le pulci su alcuni passaggi che potevano essere sviluppati di più, o di meno, o saltati a piè pari. Se questo è un uomo è un libro che è stato scritto di getto, senza fronzoli e senza velleità letterarie. E così, di getto, voglio dire la mia – senza farne una recensione in senso stretto, perché risulterei retorica.
Primo Levi fa in queste pagine un resoconto lucido della sua esperienza nel Lager, non cerca di commuovere il lettore, non è in alcun modo lacrimevole né caricato nelle sue espressioni e descrizioni – tant’è che non troverete una sola parola d’odio né di desiderio di vendetta nei confronti dei nazisti. Tutto ciò che vuole è che si sappia quello che lui, i pochi che sono tornati e i molti che non ce l’hanno fatta hanno vissuto in quel campo di concentramento.
Come questa nostra fame non è la sensazione di chi ha saltato un pasto, così il nostro modo di aver freddo esigerebbe un nome particolare. Noi diciamo «fame», diciamo «stanchezza», «paura», e «dolore», diciamo «inverno» e sono altre cose. Sono parole libere, create e usate da uomini liberi che vivevano, godendo e soffrendo, nelle loro case. Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato; e di questo si sente il bisogno per spiegare cosa è faticare l’intera giornata nel vento, sotto zero, con solo indosso camicia, mutande, giacca e brache di tela, e in corpo debolezza e fame e consapevolezza della fine che viene.
Gli stenti, le sofferenze fisiche, la fame, il lavoro massacrante, le speranze, i sogni… e soprattutto la paura e la consapevolezza che tutto, presto o tardi, finirà col gas! Vivere con la certezza della morte imminente… eppure vivere!
È fortuna che oggi non tira vento. Strano, in qualche modo si ha sempre l’impressione di essere fortunati, che una qualche circostanza, magari infinitesima, ci trattenga sull’orlo della disperazione e ci conceda di vivere. Piove, ma non tira vento. Oppure piove e tira vento: ma sai che stasera tocca a te il supplemento di zuppa, e allora anche oggi trovi la forza di tirar sera. O ancora, pioggia, vento e la fame consueta, e allora pensi che se proprio dovessi, se proprio non ti sentissi più altro nel cuore che sofferenza e noia, come a volte succede, che pare veramente di giacere sul fondo; ebbene, anche allora noi pensiamo che se vogliamo, in qualunque momento, possiamo pur sempre andare a toccare il reticolato elettrico, o buttarci sotto i treni in manovra, e allora finirebbe di piovere.
Invece Primo Levi ce l’ha fatta – come dice in Appendice rientra in quel 5% che è tornato a casa – e ha regalato alla Storia la sua testimonianza.
Ecco, leggere questo libro è un dovere verso di lui e verso chi invece un futuro non l’ha più avuto. Sono passati 70 anni, ma è doveroso non dimenticare la più tremenda pagina della Storia dell’Umanità, una macchia indelebile che non può e non deve essere cancellata dalla memoria collettiva.
Ho letto Se questo è un uomo al liceo. E ora, vent’anni dopo, l’ho riletto con una consapevolezza nuova, non perché mi è stato imposto da un professore, non perché è materia d’esame, ma perché trovo sia giusto ogni tanto scrollarsi di dosso i problemi quotidiani e fermarsi a riflettere sugli errori commessi, così da non commetterne di uguali.
Primo Levi
Se questo è un uomo
Einaudi, 2005
pp. 209