In Tre camere a Manhattan, i due protagonisti sono un uomo e una donna soli, tremendamente soli, di una solitudine così totale che basta poco – un sorriso, un gesto, una parola gentile – per ritrovare nel cuore la voglia di aprirsi e aggrapparsi disperatamente all’altro. Due vite le loro, che trovano un nuovo modo di essere, che colmano il vuoto delle rispettive esistenze costruendosi una realtà tutta loro, fuori dagli schemi. Le tre camere a Manhattan del titolo sono i luoghi in cui avviene la metamorfosi dei due protagonisti, dove si conoscono, s’innamorano, si studiano dubitando della sincerità altrui, si feriscono a vicenda, si rinfacciano il passato ma dove, alla fine, trovano pace l’uno nelle braccia dell’altra.
Alla lunga, quella marcia silenziosa nella notte andava assumendo l’andatura solenne di una marcia nuziale, e se ne rendevano conto tutti e due, tanto che si stringevano di più l’uno all’altro, non come due amanti ma come due esseri che dopo aver vagato a lungo nella solitudine avessero finalmente ottenuto la grazia insperata di un contatto umano.
Anzi, non erano neanche più un uomo e una donna. Erano solo due creature, due creature che avevano bisogno l’una dell’altra.
Ma è proprio in questa realtà che si avverte qualcosa di forzato, di finto. François e Kay recitano la parte degli amanti, ma è come se, nonostante il desiderio di stare insieme, niente sia più forte di quella malinconica solitudine che ormai è parte integrante di loro.
Un senso di oppressione e di inquietudine pervade tutto il romanzo, come se un macigno si stesse per abbattere sui due protagonisti e sul lettore che li spia. Ed è proprio qui la potenza di queste pagine: non sulla trama in sé – che è piuttosto semplice e tutto sommato scontato – ma sull’atmosfera carica di angoscia che cresce via via lungo tutta la narrazione (marchio di fabbrica della penna di Simenon).
Che cosa sarebbe successo, che ne sarebbe stato di loro quando si fossero finalmente decisi a guardare in faccia le rispettive realtà?
Fino a quel momento erano rimasti al di fuori della vita, ma a un certo punto, volenti o nolenti, avrebbero dovuto rientrarvi.
Sul finire del romanzo è l’umana debolezza a farsi avanti. Per quanto spietato possa apparire, François è un uomo fallace ma sincero, mentre Kay, da creatura debole quale sembra all’inizio, si rivela una donna decisa e capace di voltare pagina.
I romanzi di Simenon hanno solo un difetto: finiscono troppo presto. Ma non si può dire che non siano racconti fatti e finiti in cui una parola di più, temo, sarebbe di troppo. Brevi storie ma così intense da racchiudere un mondo.
I temi centrali, amore e solitudine, si alternano e si mischiano in un unico complesso sentimento. Quello raccontato da Simenon non è la passione travolgente tra due adolescenti ma un sentimento più maturo, doloroso, che si deve confrontare con la quotidianità e fare i conti con le sofferenze passate. Un amore imperfetto, come sono tutti gli amori per un verso o per l’altro… ma pur sempre amore!